Testimonianza di Silingardi Gian Carlo
A Jola di Montese arrivai una sera di un giorno che non ricordo più. So soltanto che si era nell'estate del 1945, che avevo vent'anni, molte speranze, uno zaino in spalla e, nello zaino, fra la biancheria e i libri, la lettera di nomina. Quel foglietto lo conservo ancora perché per me fu, diciamo, importante. Mi si comunicava che ero nominato insegnate supplente della scuola elementare di Jola di Montese per la pluriclasse, 1a, 2a e 3a. Per ovvi motivi nell'ultimo anno le scuole erano rimaste chiuse, le lezioni sospese, gli alunni in vacanza ed ora si recuperava, o si tentava di recuperare, che allora non faceva molta differenza , l'anno scolastico che altrimenti sarebbe andato perduto. Con grave nocumento degli scolari, come disse il direttore didattico, che era supplente anche lui, perché bisogna sapere che in Italia, in quel tempo si era tutti o supplenti o disoccupati. Adesso forse capite che cosa quel foglietto significava per me. Il posto, la sistemazione, lo stipendio, l'avvenire.
E bisogna sapere che io venivo da Modena, dove le conseguenze della guerra si vedevano ancora tutte, i giardini pubblici calpestati, il palazzo dell'Accademia occupato dai profughi; il prato delle manovre, il parco di Rainusso, lo stadio trasformati in campi di prigionia, gli americani in giro in jeep e i modenesi a piedi e qualcuno, ma raro, una mosca bianca, chissà come, in bicicletta guardato da lontano con invidia e ammirazione. Si cantava "Dove sta Zazà?", ma la vita era grama ed è perfino inutile scriverlo.
Ecco quel foglietto voleva dire volgere le spalle a tutto questo, voltare pagina, ricominciare da capo.
Dunque, a Jola arrivai nell'ora della sera, perché sugli orari delle autolinee non si poteva fare gran conto. Si sapeva, questo sì, più o meno, a che ora si partiva, ma poi, una volta in viaggio, si provava la stessa sensazione che dovettero certamente conoscere i marinai della Santa Maria quando, il 3 agosto 1492 a Porto Palos, videro le donne sventolare i fazzoletti. Era un avventura, un viaggio verso l'ignoto, ecco, non altro.
In ogni caso devo dire che fino a Vignola tutto andò bene, ma quando in stazione chiesi della corriera, mi dissero che c'era, anzi, che ci doveva essere e che con un po’ di fortuna sarei certamente riuscito a trovarla, ma che intanto andassi avanti a piedi perché il ponte sul Panaro era stato bombardato e non si passava. La corriera doveva essere di là. Così feci e, infatti, c'era, alta come un monumento, che avrebbe fatto la gioia di un collezionista di cimeli e anche l'autista e i viaggiatori c'erano e, così, dopo un'oretta buona si partì, in un polverone e in uno sconquasso che voi mai potrete immaginare.
Fino a Zocca, via, tutto era come prima o quasi, i paesi con le case raccolte attorno al campanile, i contadini nei campi, ma poi, Dio mio, dobbiamo proprio parlarne di queste cose o non sarebbe meglio dimenticarle? A Zocca le case erano tutte smantellate e bruciate, tutte in fila, i muri neri davanti e niente dietro, chiesa, scuola, alberghi, botteghe, ville non si vedevano più; sembrava un grande cimitero, ma a osservare bene, si vedevano le donne che preparavano la cena davanti a una stufa sistemata sul marciapiede, intanto che i bambini giocavano in strada. Mi ricordo bene dei bambini che seduti interra mi guardavano e poi una gran scritta su un muro: "Abbasso la guerra". Si ripartì per Castel d'Aiano e mi accorsi che tutti i viaggiatori erano diventati silenziosi. Si vedevano alberi spezzati e, a quando a quando, macerie. Mi ricordo bene. Il cielo cominciava a fersi buio e c'era un gran silenzio. Alla Canevaccia l'autista mi disse che ero arrivato, mi fece scendere e mi augurò buona fortuna.
Così arrivai a Jola a piedi, quando già sui castagni il cielo era popolato di stelle. La chiesa c'era, bianca, sotto un bel lume di luna, ma il paese non lo vidi. Era buio, mi dissi, l'avrei visto con comodo l'indomani. Andai a bussare alla porta, a chiedere ospitalità al parroco, il rettore, che era don Alessio Verucchi - lo vedo ancora, diritto, un gran naso, sorridente, contento di poter fare un piacere - mi accolse in casa e, in quattro parole, mi illustrò la situazione. Il paese? La scuola? I banchi? La cattedra? La lavagna? Non c'era niente, ecco. Macerie, mattoni, calcinacci, povere finché volevo, ma per il resto occorreva arrangiarsi. E stessi ben attento ai cartelli "Danger, mines", e camminare in mezzo ai sentieri perché gli sminatori erano passati, certo, ma solo per i sentieri più importanti; per il resto nessuno poteva garantire niente. Quanto alla lezione si teneva in una radura nel bosco, scuola all'aperto, se faceva bel tempo, in uno stanzone della canonica diviso in due da una tenda, una pluriclasse da una parte una dall'altra, se pioveva o tirava vento. Ed era già tanto avere quella stanza perché fra gli abitanti ce n'erano che vivevano, mangiavano e dormivano in cantina o dove potevano.
La mattina dopo i ragazzi arrivarono alla spicciolata. Erano tutti vestiti ed equipaggiati alla stessa maniera, alla militare, berretto e visiera, giacca a vento, calzettoni color verde oliva e cassetta di ferro in mano. Roba americana mi dissero subito con fierezza, brasiliana anzi. Era un buon motivo per attaccare con la geografia. Dove è l'America? Dove è il Brasile? Ora la cassetta di ferro era importante. Serviva da cartella, da sedia, da tavolino e da leggio. Il più, insomma, c'era e per il resto si poteva rimediare. L'inchiostro lo preparavamo con certe bacche selvatiche che i ragazzi trovavano nelle siepi o non so dove. La prima carta ce la regalò il bottegaio ed era certa carta grossa, gialla, che serviva a incartare i generi alimentari. La lavagna era la testiera bruciacchiata di un letto. Per il gesso, per il carbone, finalmente, non c'erano problemi; se ne trovava dappertutto e bastava frugare tra le macerie. Di cattedra non c'era bisogno perché già si parlava di scuola attiva.
Così si cominciò a fare lezione e fu un'esperienza bellissima, indimenticabile, giuro, campassi cent'anni. Quando arrivava l'ora della storia - macché Romolo e Remo che succhiavano il latte della lupa e Muzio Scevola che tiene la mano sul braciere e Orazio Coclide che da solo sul ponte Sublicio ferma tutto l'esercito Etrusco - tutti avevano una storia vera da raccontare. In quegli ultimi mesi, lassù, ai piedi di monte Belvedere e della Torraccia, ne erano capitati di fatti che avrebbero potuto trovar posto in un libro di storia.
C'erano i due tedeschi uccisi al ponte delle Sponge e la gran paura di una rappresaglia. C'erano i morti, non si sapeva quanti, di Ronchidoso trucidati dai tedeschi. E gli abitanti che nottetempo passavano il fronte per l'itinerario Farfarè-Bordigone-le Sassane. E i bombardamenti, quando dai Tamburini al Terminale era tutto un fuoco e la notte il cielo era illuminato a giorno dai razzi e si vedevano le case volare in aria in un polverone. E quella volta che la chiesa di Jola fu centrata in pieno e cominciò a bruciare e tutti gli abitanti accorsero a spegnere l'incendio sotto le cannonate. E l'arrivo degli americani, quando si era tutti in cantina e si tendeva l'orecchio allo sferragliare dei carri armati e si cercava di capire se fuori i soldati parlavano in tedesco o in qualche altra lingua che non si conosceva.
Era come una storia viva, come si usa dire adesso, ma noi l'avevamo scoperta per caso trent'anni fa e ancora dovevamo accorgerci che non era finita.
Don Alessio aveva un bel da ripeterlo a anch'io facevo quanto potevo. Attenzione ai cartelli, "Danger, mines", non uscite dai sentieri, camminate nel mezzo, ma si sa i ragazzi sono distratti e toccava quasi sempre a loro. Uno che inseguiva una pecora uscita dal gregge. Uno che rincorreva un compagno per gioco. Erano capitati in un campo di mine e uno era morto e uno era finito all'ospedale e aveva perso un braccio. Bisognava concludere che è proprio vero, i bambini sono distratti, vivono in un loro mondo diverso dal nostro e, se giocano, sognano ad occhi aperti, non avvertono quanto capita intorno a loro; ma bisognava per forza chiedersi se poi era giusto che alla fine i ragazzi dovessero pagare per tutti.
Questa fu la conclusione a cui arrivai nell'estate del 1945, trenta anni sono passati, io sono qui, ma ancora non sono stato capace di trovare una risposta. E' giusto ?
Testimonianze raccolte dai ragazzi della 4a classe elementare e della 3a classe delle scuole medie di Montese.