ANNO 1943
Testimonianza di Tondi Ettore
Un mio fratello era militare in Jugoslavia. Le notizie successive all'8 settembre non ci lasciavano tranquilli. Cominciavano a correre voci che i tedeschi arrestavano i soldati italiani e li mandavano prigionieri in Germania. Per i militari in Jugoslavia si temeva anche la vendetta da parte dei partigiani jugoslavi.
Intanto qualche soldato rientrava, quasi fuggiasco e di nascosto, in famiglia: era riuscito ad eludere i posti di blocco dei tedeschi e, aiutato dalla popolazione, poteva raggiungere la sua casa.
Una sera verso la fine di settembre, era ormai notte, sentimmo il cane, prima abbaiare furiosamente, poi calmarsi e uggiolare. Uscii di casa; seminascosto in un angolo dell'aia c'era mio fratello. Gli avevano detto di stare nascosto e non fare sapere a nessuno che era tornato a casa: si era fermato per timore che in casa ci fosse qualche estraneo.
Quando seppe che le cose qui non erano poi così gravi e che i militari che ritornavano non stavano nascosti, entrò in casa più tranquillo, anche perché i nostri nipoti avevano immaginato che fosse lo zio e si erano precipitati fuori. Era in abiti borghesi, se abiti si potevano chiamare: una famiglia di Trieste gli aveva dato un paio di scarpe di tela e alcuni indumenti indispensabili.
Un pò in treno, sempre aiutato da staffette che avvertivano se il treno poteva entrare tranquillamente nelle stazioni dei piccoli paesi, un po’ a piedi per evitare le stazioni delle città controllate dai tedeschi, era riuscito ad arrivare vicino a Bologna e di lì, per vie secondarie, era arrivato a casa.
Un giorno ci venne chiesto di potere utilizzare un vecchio "casone" abbandonato, per nascondervi tre prigionieri inglesi che erano fuggiti dal campo di concentramento. Il casone era vicino a un castagneto, lontano da ogni abitazione.
Durante il giorno i prigionieri stavano nascosti nel vecchio casolare, lontano da ogni abitazione. Siccome di notte era piuttosto freddo, ad una certa ora della serata, quando era buio e tranquillo, andavamo a prendere i prigionieri e li accompagnavamo a dormire nella stalla dove c'era più caldo. Al mattino presto tornavano al loro casolare. Al cibo provvedevamo noi e la persona che ci aveva chiesto di nascondere questi soldati.
Dopo quattro giorni una guida li condusse verso sud, poiché intendevano raggiungere gli alleati. Non ne sapemmo più nulla.
Testimonianza di Mecagni Maria
Era il tramonto di una limpida giornata dell'ottobre 1943. Guidati da Borri Antonio di S.Martino, giunsero al mulino di Mamino tre militari alleati, fuggiti dal campo di concentramento di Fossoli. Erano già stati ospiti del Borri che, consapevole del rischio a cui poteva andare incontro, cercava di aiutare quei fuggiaschi a proseguire il cammino verso sud.
Per una notte dormirono in un casolare abbandonato nei pressi di S.Martino. Al mattino seguente due di questi, uno si chiamava John e l'altro Donald, partirono per Maserno, il terzo invece, Derek Monsej, non poté proseguire il cammino perché febbricitante e con i piedi pieni di piaghe e di vesciche. Fu allora ospitato e ben nascosto dalla mia famiglia.
Lo vedo ancora, nella vecchia soffitta, fra rottami e ragnatele, seduto su uno sgangherato seggiolone, timoroso, spaventato, conscio del pericolo cui andava incontro lui e chi lo curava e nutriva. Aveva vent'anni, era tenente, non conosceva una parola d'italiano, ma, facilitato dagli studi di latino compiuti e animato da una grande volontà, nei venticinque giorni di permanenza al Mulino riuscì ad imparare una discreto numero di vocaboli tanto da sapersi discretamente disimpegnare. Se non altro, il tempo impiegato nello studio della nostra lingua e nelle traduzioni di pagine e pagine di latino, lo aveva aiutato a sopportare la sua "prigionia" in quei pochi metri quadrati di spazio per niente accogliente.
Appena guarito trovammo il modo di affidarlo ad un uomo di Salto che doveva andare a Roma. Fu vestito con abiti borghesi, lasciò tutto ciò (compresa la pipa), che poteva far riconoscere in lui un fuggitivo inglese, ripeté per un giorno intero: "sono uno studente, vado a Roma dal Papa". Nella sua ingenuità pensava che i tedeschi l'avrebbero bevuta.... Quando ci salutò aveva le lacrime agli occhi, provava a sorridere, ma aveva tanta paura.
Ci baciò tutti più volte; lungo l'erto sentiero si voltava ogni tanto per gridare: "Arrivederci, arrivederci", Era l'alba.
Circa una settimana dopo, e precisamente il 18 novembre 1943 - una fitta nebbia avvolgeva la vallata - giunsero al Mulino i militi delle Brigate nere, armati di mitra e di prepotenza. Mio padre era a letto con qualche linea di febbre, salirono in camera e..." poche storie, salta giù e vieni con noi!". "Perché?" Osò chiedere lui, ma non ebbe risposta. Nella casa calò il silenzio interrotto ogni tanto dai singhiozzi nostri e di mia madre e dalle imprecazioni dei fascisti che gli rinfacciavano il suo grave peccato: aveva ospitato, nutrito, curato un pellegrino straniero, ma aveva disobbedito ad una legge impostaci da un altro straniero che voleva farci credere che la carità è un peccato.
L'arrivederci di Derek urlato sul sentiero al momento della sua partenza di avverò nel maggio del 1948. In precedenza aveva scritto: "in occasione di un mio viaggio per un servizio giornalistico sul "maggio fiorentino" verrò a trovarvi". Quando arrivò era notte. L'incontro fu commovente e rinsaldò quei legami di amicizia che si erano creati, anni prima, in una tragica situazione.
Qualche anno dopo mi giunse un libro da lui scritto, intitolato "L'eroe", edito da Longanesi e dedicato "A Maria e alla sua famiglia. S. Martino di Montese".
Testimonianza di Morsiani Giuseppe
Il signor Ugo Ferri di Vignola (che poi diventerà comandante della brigata partigiana Anderlini) fu uno di quelli che, l'8 settembre, penso di raccogliere le armi abbandonate dai militari sbandati. Alla fine di settembre del 1943 le armi trovate (due fucili mitragliatori, sette fucili, tre rivoltelle, un buon quantitativo di munizioni ed un sacco di bombe OTO), dentro a casse accuratamente ricoperte di grappoli d'uva e le bombe a mano racchiuse in sacchi assieme a frumento, giunsero a Maserno.
Quando, il 18 Novembre, vennero a Maserno i militari fascisti comandati dal purtroppo famoso Cristalli per la retata di antifascisti, fu un vero miracolo se quelle armi non furono scoperte. Sarà poi sempre Ugo Ferri che, con una decina di partigiani, verrà a ritirare le armi nella primavera del 44' per portarle a Montefiorino.
ANNO 1944
Testimonianza di Franceschi Ada nata Bernardi
Una sera, a notte fonda, sentimmo dei colpi all'uscio. Erano i partigiani. Mio fratello Peppino andò ad aprire. Io avevo il compito di prendere a letto la pancetta arrotolata. Scesi da letto a tastoni, a luce spenta andai a staccare la pancetta grossa e la presi a letto con me. Quando i partigiani entrarono in camera, uno di essi disse: "Come dorme placida quella signora!". Quella signora ero io: facevo finta di dormire e intanto mi tenevo stretta la pancetta.
Testimonianza di Don Giorgio Quattrini
A Castelluccio, ai primi di agosto, un giovane di Maserno, Bernardoni Carlo, assieme ad altri partigiani, stava cercando di far saltare, insieme ad altri partigiani, il ponte dell'Oca. Sopraggiunge nel frattempo una camionetta con a bordo alcuni militari tedeschi. Mentre gli altri riescono a scappare, il Bernardoni rimane lì, pietrificato, con due bombe che non ha la forza di lanciare. Quell'attimo di smarrimento gli è fatale perché i tedeschi lo catturano e lo portano al Cerro. Il mattino seguente lo accompagnano a casa sua, fanno uscire gli abitanti (circa una ventina tra cui molti bambini), con l'intenzione di impiccare il prigioniero mentre avrebbero incendiato l'abitazione. La corda è già pronta ma risulta provvidenziale l'intervento del parroco di Maserno e della "famosa tedesca", moglie dell'ufficiale Parravicini, che riescono a commuovere l'ufficiale delle SS, già intenerito dalla vista dei bambini che forse gli ricordavano la famiglia lontana. La casa e i suoi abitanti sono salvi, ma il Bernardoni viene portato in prigione in Toscana dove verrà poi fucilato, per rappresaglia, a causa di un tedesco rimasto ucciso.
Testimonianza di Zaccaria Angelo
Ai primi di settembre del 1944 alcune formazioni partigiane si erano appostate nelle alture a nord-est di Ranocchio: Maiolo, casa Carletto, Mirandola, Cerreto, La Penna. Il mattino del 7 settembre alcuni soldati tedeschi, fra i quali vi erano anche dei russi reclutati, transitavano sulla strada Montese Ponte Docciola per portare, sembra, due cavalli al macello di Pavullo. Verso le ore nove arrivarono a Ranocchio; i partigiani, che dalle alture li avevano visti e li seguivano, aprirono il fuoco senza autorizzazione del comando. Fra le urla e lo spavento della popolazione un soldato tedesco cadde ferito a morte. Un cavallo, colpito, strappò i finimenti e morì sulla porta dell'osteria, frantumando i vetri. Un russo scappò tra i partigiani, un soldato tedesco restò ferito ma non gravemente, un'altro incolume, fuggì per i campi al di sotto del paese e riuscì a rientrare a Montese e al suo reparto per riferire l'accaduto. Intanto il soldato moribondo, un sottufficiale di Monaco, cattolico, venne assistito dal parroco di Ranocchio, don Riccardo Monterastelli, il quale, per mezzo di un interprete, il dottor Isnardi qui sfollato da Genova, gli amministro gli ultimi sacramenti. Il sodato, commosso, fra le lacrime, ringraziò il parroco dicendogli: "Le sarò riconoscente". Venne seppellito in un castagneto di fronte a Rocca. La reazione tedesca fu immediata. Nel pomeriggio, verso le quattordici, un sordo rombar di motori fece trasalire la popolazione: tre camion, pieni di soldati tedeschi in pieno assetto di guerra, sbucarono dalla curva di casa Buratta. Qui piazzarono i mortai e cominciarono a sparare verso la Penna. I partigiani risposero al fuoco con le loro mitragliatrici. Lo scontro durò poco, perché i partigiani, per evitare guai alla popolazione, si sganciarono ritirandosi oltre il Panaro.
I tedeschi, entrati in paese, minacciarono gravi rappresaglie fra cui quella di bruciare tutte le case, se entro il giorno dopo non venisse rilasciato il soldato tedesco e consegnati gli autori dell'attentato. Anche Ranocchio fu salvato e la minacciata rappresaglia non venne eseguita per merito del parroco don Monterastelli e del dottor Isnardi che intervennero presso il comando tedesco facendo presente che la popolazione non era per nulla responsabile dell'accaduto. Riferirono che il soldato aveva espresso tutta la sua riconoscenza a chi l'aveva assistito e il suo perdono per chi l'aveva colpito.
Alla fine della guerra si venne a sapere che i morti tedeschi dalla battaglia di Ranocchio furono due e non uno. Un abitante di S. Giacomo ci ha infatti rivelato che quel soldato russo, ufficialmente fuggito on i partigiani, era stato, in verità, ucciso in combattimento e subito sepolto, alla meglio, in un campo.
I tedeschi non credettero subito che corrispondesse a verità la fuga del soldato fra im partigiani e iniziarono una perquisizione, casa per casa, di tutto il paese.
Il proprietario del campo, allarmatissimo per il fatto che si poteva ben notare la terra mossa, nel luogo dell'affrettata sepoltura, salutò con gioia il sopraggiungere dell'oscurità. La paura della perquisizione che sarebbe ripresa all'alba, gli aguzzò l'ingegno. In assoluta segretezza si alzò, entrò nell'ovile, scannò una pecora e la trasportò nel campo dove giaceva il cadavere. Tolse la terra che lo ricopriva, estrasse il morto, sprofondò la fossa, ridepose il cadavere, lo ricoprì di terra, mise sopra la pecora sgozzata e la ricoprì.
Al mattino seguente, di nuovo giunsero i tedeschi. La loro perquisizione fu accurata: notarono la terra smossa. L'affannoso lavoro notturno del contadino si rivelò provvidenziale: alle prime badilate dei tedeschi emerse la carcassa della pecora......
Testimonianza di Malavolti Silvano
A Jola, l'8 settembre 1944, il suono dell'Ave Maria accompagnava il rombo di due moto su ciascune delle quali si trovavano due tedeschi. Arrivati al ponte delle Spunge, si trovarono di fronte alcuni partigiani che sbarrarono loro la strada. Una moto prosegue ugualmente, l'altra si ferma e i due tedeschi vengono uccisi. Si prospetta subito l'idea della rappresaglia. Ma il mattino seguente don Antonio Verrucchi, parroco di jola, accompagnato da due donne, una delle quali l'interprete tedesca Parravicini, si reca a Montese presso il comando tedesco. Qui, grazie anche all'aiuto delle donne che riescono a commuovere i soldati, convince il comando che nessun abitante di Jola ha partecipato alla vicenda, ma che si è trattato di comuni "ladri". E così la situazione è salva.
Testimonianza di Manni Celestino, Lancellotti Franco, Maggi Eva, Zaccanti Alberto, Tonino della Morandella, Tonelli Giosuè
Il 28 Settembre 1944 giunsero a Ronchidoso alcuni plotoni di alpini tedeschi; provenivano da casa Berna di Lizzano in Belvedere, ove avevano operato la nota strage di ventinove civili.
Percorso il crinale: Corona-Monte Belvedere-Monte Gorgolesco-Ronchidos, si disponevano a fortificare quella zona che sarebbe poi diventata la famosa "linea verde" voluta da Kesselring.
Dalla casa di Ronchidoso di sotto, piena di partigiani, partì una raffica di mitra in direzione dei tedeschi. La loro reazione fu immediata. I partigiani, favoriti dalla nebbia, riuscirono a sganciarsi, abbandonando un centinaio di pagnotte di pane appena sfornate. Fu forse questo il primo indizio che insospettì i tedeschi. Con un primo rastrellamento raccolsero ventidue civili che rinchiusero in un ambiente di Ronchidoso di sotto. Altri civili furono rastrellati e rinchiusi in altre case. Il giorno seguente iniziò la strage.
Diciotto, dei ventidue civili rinchiusi a Ronchidoso di sotto, furono incolonnati e condotti verso Casone dell'Elta. Là verranno fucilati ed i loro cadaveri, ammucchiati e ricoperti di fieno, tolto da due pagliai vicini, vennero bruciati.
A casa Lamme altri quindici civili, dopo essere stati passati per le armi, furono gettati nel fienile e bruciati.
A cà d'Ercole venti persone furono fucilate: i tedeschi tentarono quindi di bruciarle, come nei casi precedenti, ma si ottenne solo un bruciacchiamento parziale, dovuto al fatto che il foraggio era scarso.
A Ronchidoso di sopra, oltre al partigiano Rossano Marchioni detto Binda, furono fucilate otto persone fra cui due coniugi e il loro bimbo di pochi mesi. Altri testimoni affermano che l'efferatezza tedesca sarebbe arrivata al punto di lanciare in aria la piccola creatura e sparargli a mo di bersaglio.
La strage ebbe poi un epilogo al Cargè dove furono fucilati due coniugi perché avevano ospitato un tedesco portato loro dai partigiani. Ma chi era questo tedesco e come era stato catturato? Bisogna risalire ad una sera dei primi d'agosto dello stesso anno quando una squadra di partigiani, della brigata Giustizia e Libertà operante a Ronchidos, giunse a Maserno dove vi era un magazzino di viveri tenuto in consegna da quattro soldati: tre austriaci e un tedesco della Sassonia. era questi un giovanotto d'una ventina d'anni, nazista convinto. Quella sera si trovava nella piazza in compagnia di una ragazza sfollata da Bologna, e fu lì che venne catturato.
Riuscì ad eludere la sorveglianza dei partigiani durante la rappresaglia, si fece riconoscere dai commilitoni e li guidò nelle varie case dove era stato alloggiato assieme ai partigiani, per far compiere la strage.
Per completare questa triste storia bisogna raccontare l'impiccagione di "Napoleone". Era questo il nome di battaglia di un ex aviatore francese, certo Jaacques Lepeyrie do Orléans, che, paracadutatosi in territorio controllato dai tedeschi, era poi diventato autista al loro servizio; successivamente era fuggito col camion per aggregarsi ai partigiani.
Napoleone, durante la rappresaglia del 28-29 settembre, riuscì, protetto dalla nebbia, a scavalcare il crinale ed a portarsi verso Moscheda. Catturato dai tedeschi, fu portato a Castelluccio. Siccome possedeva documenti tedeschi, disse di essere stato fatto prigioniero dai partigiani. In un primo tempo fu creduto e lasciato libero. Ma ecco che, in piazza a Castelluccio, incontra quel tedesco della Sassonia che era stato fatto prigioniero a Maserno e che, sfuggito ai partigiani, si era ricollegato ai suoi. Napoleone, riconoscendolo, gli andò incontro per tendergli la mano, ma quello gli sputò in faccia e lo smascherò dicendo che non solo era un partigiano, ma era un capo.
Gli abitanti di Castelluccio di Moscheda, in quella triste e nebbiosa mattina d'autunno, assistettero inorriditi alla lugubre cerimonia. Lungo il viale del cimitero fu issata una forca alla quale fu impiccato Napoleone mentre, ai suoi piedi, cadevano, trucidati da una raffica di mitra, due giovani sconosciuti. Uno si chiamava Tamarri Mario, l'altro Gentilini Luigi: entrambi erano di Pianaccio di Lizzano in Belvedere. Catturati dai tedeschi durante un rastrellamento per essere deportati in Germania, erano riusciti a fuggire. Non si sà quanta strada avessero percorso a piedi, ma quando i tedeschi li ripresero, avevano i vestiti laceri ed erano quasi scalzi.
La morte di Napoleone segna la fine della strage. Ma quando arriveranno i brasiliani, si constaterà che il conto delle vittime non è esatto: risulterà aumentato dai dieci cadaveri trovato, sotto un mucchio di patate, al Casone dell'Elta.
ANNO 1945
Testimonianza di Malavolti Livio
Ai primi di marzo 1945, un anziano soldato tedesco fu colpito ad un braccio da una scheggia di granata. Rimasto per alcune ore senza nessuna cura, gli fu amputato il braccio da un infermiere, senza anestesia; intanto guardava una fotografia di alcuni famigliari dicendo: "Alles caput"!.
Dopo due giorni, i soldati americani accerchiarono la posizione che lui difendeva e lo uccisero, occupando la postazione. Scoperto poi che nello zaino c'era ancora il braccio amputato, gli presentarono le armi.
Testimonianza di Morsiani Caterina e Gemma
Il terzo bombardamento effettuato a Maserno il 10 marzo 1945 fu senza dubbio il più violento. Non si riuscì nemmeno a capire il motivo di una distruzione così totale poiché, in quel periodo, le case di Maserno non ospitavano tedeschi. Al bombardamento seguì il lancio di spezzoni al fosforo che incendiarono totalmente tutta la casa Spuntiglia.
Noi eravamo andati a rifugiarci sotto il campanile: il grossissimo spessore dei muri ci dava un certo senso di sicurezza. Improvvisamente una fortissima scossa, poi il portale maggiore di ingresso alla chiesa, scardinato completamente, venne scaraventato sull'altare maggiore; noi rimanemmo avvolti in una nuvola di polvere. Intontiti e spaventati, uscimmo dal rifugio senza sapere deve dirigerci. Ci venne fatto di guardare la nostra casa: era completamente in fiamme. Con la disperazione nel cuore e le mani davanti al viso per non vedere quell'orrendo spettacolo, prendemmo di corsa la strada per Montespecchio.
Dove stavamo andando? Non sapevamo neppure noi. Pensammo allora ad un amico di famiglia: Ovidio Giacobazzi: "Andiamo da lui; per l'amicizia che abbiamo, ci ospiterà!...". L'accoglienza che avemmo fu di una cordialità commovente. Povero Ovidio: cercava le parole più care per consolarci: "Qui siamo al sicuro - diceva- Montespecchio è un'isola di tranquillità, non abbiamo avuto nemmeno una cannonata". E sembrava davvero così: lungo la strada avevamo visto uomini giocare al "ruzzolone". Per noi, che venivamo dall'inferno, quella sembrava una vera imprudenza. Ricordo che dicemmo loro di scappare, ma quelli continuavano tranquillamente la partita.
Ci fermammo in casa di Ovidio alcune ore. Ad un tratto lo scoppio di una cannonata fece tremare i vetri della casa. Noi, già scosse, urlammo dalla paura. Ovidio aprì la porta per vedere cosa fosse successo. Un'altra cannonata scosse fortemente la casa, poi ..... un rantolo: una scheggia aveva colpito in pieno il nostro caro amico asportandogli il capo.
Su testimonianza di Nardi Clelia e Credi Carlo
E' l'11 marzo 1945, sono circa le nove del mattino: Clelia Nardi con la nipotina Imelde Fili, di quattro anni, sta tornando da Vignaletto di San Giacomo a Bago di Monese. Porta con sé un borsa contenete roba da mangiare, qualche oggetto prezioso, un po’ di denaro. E' arrivata a Montese dove, assieme ad altri sfollati, si trova la famiglia Credi delle "Coste" composta dai due genitori, Maria e Primo, e dai tre figli: Anita di 16 anni, Anna di 18, e Carlo. Maria chiede a Clelia di portare con sé Anna che, giorni prima, era stata colpita alla testa da un sasso, durante lo scoppio di una granata, rimanendone stordita e molto scossa. Quindi soggiunge che lei e gli altri sarebbero tornati alle Coste il giorno seguente al massimo, perché si era sentito dire che lì non c'erano più tedeschi e avrebbero provveduto a venire a prendere la ragazza.
Accompagnate dal saluto dei restanti, le due donne si mettono in cammino. Percorsi circa un centinaio di metri, in prossimità della botte del mulino, Anna inciampa in una mina. Un fumo denso e una pioggia causata dalla rottura di un tubo dell'acqua investono le due donne e la bimba che si sentono scaraventate a terra, semi incoscienti. La prima a riprendersi è Clelia, scossa dal pianto della piccola Imelde e dai lamenti di Anna, rimasta gravemente ferita e non più in grado di muoversi; anche Clelia è ferita alle gambe, in sette punti, con frattura del nervo sciatico e tuttavia sa che è lei l'unica a dover fare qualcosa: quindi, raccolta la nipotina anch'essa rimasta colpita alle gambe, un pò a carponi, un pò strisciando, si avvia alla stalla del Mulino (che fingeva da rifugio), chiamando aiuto con quanta forza può, senza ottenere risposta. Con un ultimo sforzo, riesce, rizzandosi in piedi con estrema fatica, ad arrivare alla stalla dove incontra Maria e la informa che Anna è rimasta nelle mine. Nel frattempo Anita e Primo, richiamati dal boato, si erano diretti verso il luogo da cui era pervenuto il rumore dello scoppio. Poco dopo, ecco arrivare Anita, ferita gravemente per avere inciampato in un'altra mina, seguita a breve distanza dal padre che porta in spalla Anna e che, ignaro di quanto è successo, rendendosene improvvisamente conto, guarda costernato lo spettacolo: "Anche tu, Anita, sei finita così?... Guarda, Maria, le nostre speranze di domani!....". E deposta Anna accanto alla sorella, nella stalla, si china a raccogliere nel cavo delle mani il sangue delle due figlie che uscendo copioso dalle ferite, ha formato in terra una piccola pozza. Intanto vengono prestati, dalla gente che si prodiga con tutti i mezzi, i primi soccorsi nel modo che si può: a causa del sangue perduto, le quattro donne sentono molto freddo e si cerca di scaldarle con bottiglie di acqua calda. In giornata, arriva il dottor Pallotti che, vedendo la situazione, non cerca nemmeno di nascondere la sua disperazione per non poter fare niente o quasi, disponendo solo di cotone idrofilo e di alcol.
Passano le ore e, con l'avvicinarsi della notte, rientrano, come ogni sera verso le 19-20, i tedeschi delle postazioni diurne: notano con disappunto la situazione e, poiché i feriti, lì, danno noia, requisiscono civili per il loro trasporto al pronto soccorso tedesco che è a casa Ghettino. Clelia chiede a un tedesco se, per favore, tenta di recuperare la borsa che è rimasta nel luogo della esplosione: si tenga pure tutto quello che vi trova da mangiare, ma mi faccia riavere, per cortesia, almeno il denaro che potrebbe rivelarsi indispensabile per le cure in ospedale; il tedesco dimostra molta indifferenza, asserendo inoltre che, in ospedale, non ci sarà bisogno di denaro.
Le donne ferite, sistemate alla meglio, vengono quindi trasportate a casa Ghettino, da dove il comandante non intende farle trasportare verso l'ospedale e pertanto vengono deposte nel giardino dove restano per ore, mentre primo sta cercando disperatamente un carro con bestie per trasportarle personalmente all'ospedale di Pavullo; ma i suoi tentativi risultano vani. Insperatamente, verso le sei del mattino, con grande sorpresa di tutti, si sente dire che i tedeschi provvederanno al trasporto in ospedale dei feriti. Tale decisione è dettata dal fatto che alle quattro donne si è aggiunto un nuovo ferito: si tratta di quello stesso tedesco a cui Clelia si era rivolta per chiedere di recuperarle la borsa: egli, assieme a un compagno, aveva tentato, ma i due erano inciampati nelle mine: l'altro era morto sul posto, questo era rimasto gravemente lesionato e morirà poi a Pavullo.
Si parte quindi con la vettura della croce rossa tedesca e tutto il viaggio è accompagnato dagli strazianti lamenti sopratutto di Anna e Anita che soffrono tremendamente. Arrivati a Pavullo, poiché l'ospedale civile è stato bombardato, i feriti sono ricoverati nel convento dei frati cappuccini che hanno messo l'ambiente a disposizione del pronto soccorso: i cinque vengono anestetizzati e si prestano loro le prime cure, nei limiti dei mezzi disponibili. Al risveglio, Clelia e Imelde sono state medicate; ad Anna sono state amputate tutte due le gambe già infette dal tetano; per Anita colpita dalle schegge all'intestino, non esistendo attrezzature idonee per un intervento così delicato, non c'è più niente da fare.
E così dopo atroci sofferenze, Anna dà il suo addio al mondo terreno nella serata del 15 marzo: se ne va insieme al sole che muore e quando il sole risorge, la mattina dopo, riceve l'estremo saluto di Anita che raggiunge la sorella nella pace eterna.
Testimonianza di Scaglioni Evarista
All'arrivo degli alleati si tornò finalmente alle nostre case ridotte a mucchi di macerie e spoglie di tutto. Mancavano i viveri, scarseggiavano gli indumenti, il morale era a terra specialmente da parte di chi aveva lutti in famiglia. Eravamo disorientati. Sembravamo mendicanti. Si accettava tutto quanto generosamente veniva offerto. Che buon sapore avevano la cioccolata, il caffè e i cibi in scatola! Tra tanto ben di Dio però non và dimenticata una certa polverina allora a noi completamente sconosciuta, che ebbe il potere di liberarci dalle pulci, pidocchi, cimici e altri animaletti noiosi che da mesi circolavano in grande quantità. Che sollievo! Finalmente sparì quel tormentoso prurito che era stato uno dei passatempi non graditi durante le lunghe permanenze nei rifugi e nelle cantine.
Testimonianza di Silingardi Gian Carlo
A Jola di Montese arrivai una sera di un giorno che non ricordo più. So soltanto che si era nell'estate del 1945, che avevo vent'anni, molte speranze, uno zaino in spalla e, nello zaino, fra la biancheria e i libri, la lettera di nomina. Quel foglietto lo conservo ancora perché per me fu, diciamo, importante. Mi si comunicava che ero nominato insegnate supplente della scuola elementare di Jola di Montese per la pluriclasse, 1a, 2a e 3a. Per ovvi motivi nell'ultimo anno le scuole erano rimaste chiuse, le lezioni sospese, gli alunni in vacanza ed ora si recuperava, o si tentava di recuperare, che allora non faceva molta differenza , l'anno scolastico che altrimenti sarebbe andato perduto. Con grave nocumento degli scolari, come disse il direttore didattico, che era supplente anche lui, perché bisogna sapere che in Italia, in quel tempo si era tutti o supplenti o disoccupati. Adesso forse capite che cosa quel foglietto significava per me. Il posto, la sistemazione, lo stipendio, l'avvenire.
E bisogna sapere che io venivo da Modena, dove le conseguenze della guerra si vedevano ancora tutte, i giardini pubblici calpestati, il palazzo dell'Accademia occupato dai profughi; il prato delle manovre, il parco di Rainusso, lo stadio trasformati in campi di prigionia, gli americani in giro in jeep e i modenesi a piedi e qualcuno, ma raro, una mosca bianca, chissà come, in bicicletta guardato da lontano con invidia e ammirazione. Si cantava "Dove sta Zazà?", ma la vita era grama ed è perfino inutile scriverlo.
Ecco quel foglietto voleva dire volgere le spalle a tutto questo, voltare pagina, ricominciare da capo.
Dunque, a Jola arrivai nell'ora della sera, perché sugli orari delle autolinee non si poteva fare gran conto. Si sapeva, questo sì, più o meno, a che ora si partiva, ma poi, una volta in viaggio, si provava la stessa sensazione che dovettero certamente conoscere i marinai della Santa Maria quando, il 3 agosto 1492 a Porto Palos, videro le donne sventolare i fazzoletti. Era un avventura, un viaggio verso l'ignoto, ecco, non altro.
In ogni caso devo dire che fino a Vignola tutto andò bene, ma quando in stazione chiesi della corriera, mi dissero che c'era, anzi, che ci doveva essere e che con un po’ di fortuna sarei certamente riuscito a trovarla, ma che intanto andassi avanti a piedi perché il ponte sul Panaro era stato bombardato e non si passava. La corriera doveva essere di là. Così feci e, infatti, c'era, alta come un monumento, che avrebbe fatto la gioia di un collezionista di cimeli e anche l'autista e i viaggiatori c'erano e, così, dopo un'oretta buona si partì, in un polverone e in uno sconquasso che voi mai potrete immaginare.
Fino a Zocca, via, tutto era come prima o quasi, i paesi con le case raccolte attorno al campanile, i contadini nei campi, ma poi, Dio mio, dobbiamo proprio parlarne di queste cose o non sarebbe meglio dimenticarle? A Zocca le case erano tutte smantellate e bruciate, tutte in fila, i muri neri davanti e niente dietro, chiesa, scuola, alberghi, botteghe, ville non si vedevano più; sembrava un grande cimitero, ma a osservare bene, si vedevano le donne che preparavano la cena davanti a una stufa sistemata sul marciapiede, intanto che i bambini giocavano in strada. Mi ricordo bene dei bambini che seduti interra mi guardavano e poi una gran scritta su un muro: "Abbasso la guerra". Si ripartì per Castel d'Aiano e mi accorsi che tutti i viaggiatori erano diventati silenziosi. Si vedevano alberi spezzati e, a quando a quando, macerie. Mi ricordo bene. Il cielo cominciava a fersi buio e c'era un gran silenzio. Alla Canevaccia l'autista mi disse che ero arrivato, mi fece scendere e mi augurò buona fortuna.
Così arrivai a Jola a piedi, quando già sui castagni il cielo era popolato di stelle. La chiesa c'era, bianca, sotto un bel lume di luna, ma il paese non lo vidi. Era buio, mi dissi, l'avrei visto con comodo l'indomani. Andai a bussare alla porta, a chiedere ospitalità al parroco, il rettore, che era don Alessio Verucchi - lo vedo ancora, diritto, un gran naso, sorridente, contento di poter fare un piacere - mi accolse in casa e, in quattro parole, mi illustrò la situazione. Il paese? La scuola? I banchi? La cattedra? La lavagna? Non c'era niente, ecco. Macerie, mattoni, calcinacci, povere finché volevo, ma per il resto occorreva arrangiarsi. E stessi ben attento ai cartelli "Danger, mines", e camminare in mezzo ai sentieri perché gli sminatori erano passati, certo, ma solo per i sentieri più importanti; per il resto nessuno poteva garantire niente. Quanto alla lezione si teneva in una radura nel bosco, scuola all'aperto, se faceva bel tempo, in uno stanzone della canonica diviso in due da una tenda, una pluriclasse da una parte una dall'altra, se pioveva o tirava vento. Ed era già tanto avere quella stanza perché fra gli abitanti ce n'erano che vivevano, mangiavano e dormivano in cantina o dove potevano.
La mattina dopo i ragazzi arrivarono alla spicciolata. Erano tutti vestiti ed equipaggiati alla stessa maniera, alla militare, berretto e visiera, giacca a vento, calzettoni color verde oliva e cassetta di ferro in mano. Roba americana mi dissero subito con fierezza, brasiliana anzi. Era un buon motivo per attaccare con la geografia. Dove è l'America? Dove è il Brasile? Ora la cassetta di ferro era importante. Serviva da cartella, da sedia, da tavolino e da leggio. Il più, insomma, c'era e per il resto si poteva rimediare. L'inchiostro lo preparavamo con certe bacche selvatiche che i ragazzi trovavano nelle siepi o non so dove. La prima carta ce la regalò il bottegaio ed era certa carta grossa, gialla, che serviva a incartare i generi alimentari. La lavagna era la testiera bruciacchiata di un letto. Per il gesso, per il carbone, finalmente, non c'erano problemi; se ne trovava dappertutto e bastava frugare tra le macerie. Di cattedra non c'era bisogno perché già si parlava di scuola attiva.
Così si cominciò a fare lezione e fu un'esperienza bellissima, indimenticabile, giuro, campassi cent'anni. Quando arrivava l'ora della storia - macché Romolo e Remo che succhiavano il latte della lupa e Muzio Scevola che tiene la mano sul braciere e Orazio Coclide che da solo sul ponte Sublicio ferma tutto l'esercito Etrusco - tutti avevano una storia vera da raccontare. In quegli ultimi mesi, lassù, ai piedi di monte Belvedere e della Torraccia, ne erano capitati di fatti che avrebbero potuto trovar posto in un libro di storia.
C'erano i due tedeschi uccisi al ponte delle Sponge e la gran paura di una rappresaglia. C'erano i morti, non si sapeva quanti, di Ronchidoso trucidati dai tedeschi. E gli abitanti che nottetempo passavano il fronte per l'itinerario Farfarè-Bordigone-le Sassane. E i bombardamenti, quando dai Tamburini al Terminale era tutto un fuoco e la notte il cielo era illuminato a giorno dai razzi e si vedevano le case volare in aria in un polverone. E quella volta che la chiesa di Jola fu centrata in pieno e cominciò a bruciare e tutti gli abitanti accorsero a spegnere l'incendio sotto le cannonate. E l'arrivo degli americani, quando si era tutti in cantina e si tendeva l'orecchio allo sferragliare dei carri armati e si cercava di capire se fuori i soldati parlavano in tedesco o in qualche altra lingua che non si conosceva.
Era come una storia viva, come si usa dire adesso, ma noi l'avevamo scoperta per caso trent'anni fa e ancora dovevamo accorgerci che non era finita.
Don Alessio aveva un bel da ripeterlo a anch'io facevo quanto potevo. Attenzione ai cartelli, "Danger, mines", non uscite dai sentieri, camminate nel mezzo, ma si sa i ragazzi sono distratti e toccava quasi sempre a loro. Uno che inseguiva una pecora uscita dal gregge. Uno che rincorreva un compagno per gioco. Erano capitati in un campo di mine e uno era morto e uno era finito all'ospedale e aveva perso un braccio. Bisognava concludere che è proprio vero, i bambini sono distratti, vivono in un loro mondo diverso dal nostro e, se giocano, sognano ad occhi aperti, non avvertono quanto capita intorno a loro; ma bisognava per forza chiedersi se poi era giusto che alla fine i ragazzi dovessero pagare per tutti.
Questa fu la conclusione a cui arrivai nell'estate del 1945, trenta anni sono passati, io sono qui, ma ancora non sono stato capace di trovare una risposta. E' giusto ?
Testimonianze raccolte dai ragazzi della 4a classe elementare e della 3a classe delle scuole medie di Montese.
TESTIMONIANZA DI LAURA BALESTRI RACCOLTA DA SAMANTA BALESTRI
Io sono Laura Balestri e vi racconto la storia del 25 aprile. Era il 1943 quando cadde il regime fascista.
A Montese la notizia della caduta del regime fu appresa con sorpresa e tutti noi seguimmo con trepidazione gli avvenimenti e i cambiamenti che per 45 giorni si susseguirono in senso antifascista.
Subito cominciarono a diffondersi in Italia molte forze tedesche che, ai primi di settembre, raggiunsero la consistenza di 17 divisioni.
Mi ricordo che l’ 8 settembre il nuovo governo italiano aveva firmato l’armistizio con gli alleati.
Era giunta ormai sera e non tutti avevano una radio, ma in breve la notizia raggiunse tutte le case e le osterie, anche quelle più deserte. A San Martino io e i miei amici iniziammo a cantare e ballare, a fare baldoria. A Castelluccio la gente iniziò a cantare e schiamazzare, così come a Ranocchio. A Salto le campane tacquero perché il parroco aveva detto:” Far festa per una guerra perduta non mi sembra il caso, e poi, il nemico lo abbiamo sempre in casa”.
Tra maggio e giugno la situazione si fece sempre più critica. Si iniziò ad avere paura perché squadre di fascisti arrivarono in tutte le case per ricercare i disubbidienti alla leva e i traditori, ma si ottenne il risultato contrario.
In estate e in autunno la situazione nella nostra zona peggiorò ancora. Degli ufficiali tedeschiavevano cominciato ad esplorare la zona: visitavano case e stalle e questo mi faceva venire ancora più paura perché nelle piazze si iniziarono a vedere i primi cannoni.
Tra il 27-28 ottobre 1944, circa cinquecento dei nostri uomini si prepararono per effettuare la difesa su Monte Belvedere.
Arrivati in inverno, i soldati tedeschi, finiti i loro rifornimenti, cominciarono con i furti presso i civili.
A Montese il bombardamento colpì il palazzo comunale distruggendolo. Si arrivò a Natale e il rumore delle cannonate sprigionava nei cuori di ogni persona una paura immensa. A capodanno, a Maserno, i tedeschi salirono sul campanile e suonarono le campane.
Il 7 aprile 1945 iniziò ad opera dei brasiliani la cosiddetta “offensiva primavera” che terminò poi con la conquista di Montese.
La guerra a Montese arrivò questa volta davvero alla conclusione: lasciò dietro di sé morti, feriti, persone private della casa e degli affetti più cari.
TESTIMONIANZA DI AGNESE MORELLI RACCOLTA DA GIULIO MECAGNI
Abitavo a Monteforte, ai confini con Iola, alla “Fontana”. In aprile, un giorno non vedevamo più i tedeschi entrare in casa o nelle vicinanze. Comunque rimanemmo chiusi nel sottoscala, nella facciata della casa posta verso Monteforte, per proteggerci dalle cannonate americane che arrivavano da Iola. Un pomeriggio, da una fessura della finestra della cucina, vedevamo tante persone scendere giù per i campi verso la nostra casa. Papà diceva: ”Ci sono gli aerei bassi e non li mitragliano, non capisco”. Di corsa tornammo nel nostro rifugio, sentimmo entrare in casa alcune persone, poi uscire. Dopo poco udimmo il rumore di alcuni spari e di una bomba “Schip” esplodere in casa. Nel sottoscala entrò del fumo e noi avemmo l’impressione di essere nei guai; impauriti rimanemmo lì, senza più uscire, anche per tutta la notte seguente. La mattina dopo c’era un gran silenzio, un signore che era lì con noi, chiamato “Ioli” disse: “Che sia come sia, io devo andare a vedere i miei figli che ho lasciato alle Serrette”. “Ioli” passò da una casa vicina: le Braine e gli dissero: “Avete visto che sono arrivati gli americani?” Ioli rispose: “Io ero alla Fontana, ma non ci siamo accorti di niente; bisogna avvertirli, perché loro sono ancora tutti chiusi nel sottoscala“. Alcuni ragazzi corsero a chiamarci dicendo: ”Potete uscire, ieri sono arrivati gli americani”. Uscimmo dal nascondiglio ed entrata in cucina vidi tutti i mobili scheggiati, capii che la bomba era stata lanciata dentro dalla finestra ed era scoppiata dietro un mobile; gli americani avevano voluto distruggere tre casse di munizioni lasciate lì dai tedeschi. Io pensavo di essere libera; i giorni seguenti uscivamo da casa, ma sempre attenti ad ogni rumore e appena sentivamo arrivare aerei rientravamo nel nascondiglio. La prima linea dei brasiliani era molto vicina alla nostra casa: “Serretto - Monteforte – La Cà”. La prima linea dei tedeschi era alla Riva. La terra tra la Riva e Monteforte era chiamata “Terra dei ninghì” (terra di nessuno). Chi abitava al Serretto, a Monteforte, alla Cà, di notte, veniva a dormire a casa mia. Tre giorni dopo l’arrivo dei brasiliani, tutti quanti, compresa la mia famiglia, fummo mandati via, oltre Iola, perché i tedeschi erano avanzati. Mentre ci trasferivamo a Bombiana, arrivati al Cardinale, sul monte Terminale iniziarono ad arrivare delle cannonate e tutti i soldati brasiliani, in un attimo, sparirono dentro le trincee; i civili, tra cui io e la mia famiglia, eravamo lì, in mezzo alla strada con mucche e carri. Per fortuna le cannonate dei tedeschi, anche se per poco, non ci colpirono. Io e la mia famiglia, la prima notte dormimmo a Bombiana, poi a Malavolta. Dopo sette - otto giorni tornammo a casa tutti, con le mucche, tranne mia madre, perché camminava piano e non ce l’avrebbe fatta a raggiungere l’abitazione prima del coprifuoco. Usavamo un rifugio più interrato rispetto al precedente e postonella facciata opposta, per proteggerci dalle cannonate tedesche che arrivavano dal Serretto-Monteforte. Alcuni dormivano sulle patate, io e la mia famiglia su un po’ di paglia; c’erano tante pulci. La prima linea tedesca era sempre alla Riva; una notte soffiava il vento molto forte e i tedeschi riuscirono a prendere due inglesi dal pozzo di Monteforte, senza che i compagni brasiliani si accorgessero di niente. Successivamente i brasiliani avanzarono da altri versanti verso Montese che, dopo alcuni giorni di dura battaglia, fu liberato. La guerra finì il 14 aprile 1945, quando i brasiliani arrivarono in Montello. Eravamo contenti, ma era rimasta la paura e quando sentivamo il rumore di un aereo, istintivamente scappavamo verso i rifugi.
TESTIMONIANZA DI GIOVANNA BERTARINI RACCOLTA DA ALICE PICCHIONI
Prima della liberazione avevo 9 anni, abitavo in una casa con sotto un negozio, come quelli di una volta, dove si vendevano generi molto vari. Quando i partigiani arrivavano, andavano nelle camere da letto e ci facevano alzare tutti per vedere se sotto al materasso c'erano oggetti di valore. La nostra abitazione venne presa di mira perché, avendo il negozio, era ricca di cose utili, i partigiani quindi vennero più volte. Io e la mia famiglia resistemmo a lungo, ma quando il fronte si avvicinò, decidemmo di andarcene pensando di essere al sicuro, ma non fu così. Andammo in un podere di alcuni contadini e ci accomodammo nella stalla con anche le mucche, ma alcune notti dopo il fienile venne bombardato e prese fuoco ed entrarono i tedeschi urlando: “Via civili!” E liberarono le mucche, ma non sapevamo dove andare. Dopo andammo in un rifugio naturale, con la nostra nonna, poco distante dal podere e ci sistemammo per dormire con quello che eravamo riusciti a prendere. Poi dopo un po' vedemmo una lampadina illuminare il rifugio; erano i tedeschi, entrarono ed urlarono: “Civili, civili!” E si sistemarono lì con noi. Il giorno dopo i tedeschi offrirono a me e ai miei fratelli marmellate, pane, cose da mangiare.
Purtroppo però davanti alla “porta” c'era una mitraglia.
Decidemmo poi di passare il fronte ed andammo a Bombiana dove c'erano dei nostri parenti che ci ospitarono, intanto gli americani avanzavano.
Il 21 aprile il fratello di mia nonna, giocando dietro casa con un amico, fece scoppiare una bomba a mano trovata mentre avanzavamo verso Bombiana e morì.
La liberazione, perciò, non venne vissuta con tanta allegria, considerata la morte del fratello.
Decidemmo di tornare al podere e vedemmo che la mucca più vecchia era tornata, molto mal messa.
Testimonianza di Armida Leoni (classe 1915) raccolta da Chiara Bertoni e Gaia Miliciani
Alla fine del 1943, ospitammo un soldato inglese ferito a un piede. Era fuggito da un campo di concentramento di Milano. Lo curammo e gli demmo da mangiare per un po’.
Poi qualcuno fece la spia e la notte del 28 dicembre arrivarono i fascisti e i tedeschi che prelevarono il soldato e anche mio marito. Per 40 giorni non sapemmo niente di nessuno dei due. Poi arrivò una lettera scritta da un compagno di mio marito (lui era analfabeta) e così venimmo a sapere che egli si trovava a Modena nel carcere di S. Eufemia dove rimase tre mesi. Successivamente venne trasferito a Bologna nella prigione di San Giovanni in Monte dove fu trattenuto per altri sei mesi. Ogni tanto suo fratello Sisto andava a trovarlo per portargli vestiti, cibo e sigari. Intanto don Cavallini, parroco di Montespecchio, aveva scritto alle autorità una lettera in cui chiedeva "un occhio di riguardo per mio marito, persona perbene e padre di famiglia". Finalmente, dopo nove lunghi mesi, egli venne rilasciato e potemmo riabbracciarlo.
Nel marzo del 1945 arrivarono i tedeschi e si insediarono in casa nostra: a noi non rimase che sfollare. Partimmo una sera diretti a Maserno. Eravamo io, mio marito e i nostri tre figli: Gianni (10 anni), Maria (4 anni) e Virginia (2 anni). Io portavo un prosciutto a tracolla, avevo la piccola Virginia in braccio e per mano tenevo una mucca. Arrivati a casa Campagna, incontrammo una conoscente che, per agevolare il nostro cammino, si offrì di tenere Maria e i buoi condotti da mio marito. Poco più avanti, ci imbattemmo in una pattuglia tedesca che ci impose di tornare indietro. Fu la nostra fortuna, perché a casa Campagna trovammo la piccola, da sola, dentro una stanza: dei buoi e della donna nessuna traccia. Che fine avevano fatto? Riprendemmo il viaggio. Dopo un po’, ci accorgemmo che Maria aveva perso una scarpina e non riusciva più a camminare. Arrivati ai Cannoni, mio marito rintracciò un calzolaio che approntò in fretta e furia la scarpa per la piccola.
Era ormai l’alba quando giungemmo alla meta e cioè a casa Bernardini dove abitava il sig. Baldini che mio padre conosceva bene. Stremati dal viaggio, ci abbandonammo sul pavimento della stalla e ci addormentammo all’istante.
Si stava tanto bene, il pavimento non era poi così duro. Quando mi svegliai, mi accorsi che avevo posato il capo su sterco di mucca: ecco spiegato il mistero della morbidezza.
Ci trattenemmo circa un mese.
Ci nutrivamo con il latte della mucca e i suoi derivati, col prosciutto e scambiandoci il cibo con gli altri sfollati e le famiglie vicine. Il pericolo più grande erano le mine sparse ovunque. Ricordo che un giorno morì ai Tosetti un ragazzo di nome Fioravante Marcacci, poiché una delle mucche che conduceva aveva pestato e fatto scoppiare una mina. Un’altra volta, mio figlio e un suo coetaneo avevano portato al pascolo le pecore e lì vicino scoppiò una mina. Non riportarono ferite evidenti, ma mio figlio avvertiva bruciore a un occhio. Non ci facemmo caso più di tanto, ma con l’andare del tempo da quell’occhio perse la vista.
Il 25 aprile sentimmo gridare: ”Ci sono i Brasiliani, ci sono i Brasiliani!”.
Vedemmo tanti soldati che distribuivano caramelle e cibo ai nostri bambini. Eravamo tutti felici. Finalmente la guerra era finita. Quel giorno nacque una bimba e venne chiamata Brasiliana in onore dei liberatori.
Per ricompensare chi ci aveva ospitato, lasciammo lì la mucca e facemmo ritorno a casa.
La trovammo lesionata e in pessime condizioni, ma poco importava: eravamo a casa nostra e, ora che la guerra era finita, niente ci faceva più paura. Ricordo che, prima di partire, avevamo nascosto sottoterra del grano e vi avevamo seminato sopra dell’insalata per nasconderlo meglio e lo ritrovammo.
Sotto il pavimento della stalla, invece, avevamo nascosto posate, piatti e bicchieri che ci erano stati regalati quando ci eravamo sposati. Purtroppo i tedeschi avevano usato proprio quel punto come gabinetto e dovemmo buttare via tutto.
Si trattava di ricominciare da capo, con tanta miseria e tanta speranza.
Testimonianza di Agostino Venturi raccolta da Daniel Venturi
Io mi chiamo Venturi Agostino, sono nato il 6 ottobre 1922 e sono stato prigioniero dei tedeschi dal 9 settembre 1943 fino al 25 agosto 1946 nel campo di concentramento di “Buchenwald” in Germania. Insieme a me sono partiti tanti altri soldati italiani, ma al ritorno eravamo solamente in9. Noi dovevamo lavorare, lavorare e lavorare per tutto il giorno; i più fortunati erano quelli che erano impiegati nei frutteti perché ogni tanto riuscivano a mangiare qualche frutto di nascosto, ma gli altri, compreso me, lavoravano nelle miniere e lì non c’era proprio niente da mangiare. Mi ricordo soprattutto la paura che avevo e l’incontrollabile fame che pativo. La mattina, quando ci portavano nelle miniere, lungo la strada c’erano ciliegie o mele, ma se qualcuno provava a raccoglierle veniva fucilato all’istante, infatti io non ci ho neanche mai provato. Inoltre mi ricordo che le guardie tedesche erano veramente cattive e senza scrupoli; addirittura una donna tedesca aveva fatto seppellire due prigionieri, lasciando loro fuori soltanto la testa per fare le porte da calcio per i propri figli. Alcune volte succedeva anche che, al mattino, alcuni prigionieri si svegliavano tutti gonfi e i soldati li portavano a quello che chiamavano “lazzaretto”, ma per quello che so io non sono mai tornati e penso che li uccidessero perché non riuscivano più a lavorare. Noi abbiamo saputo che la guerra era finita perché passò un aereo che lanciava volantini con scritto che la guerra era finita, ma se i tedeschi si accorgevano che noi li leggevamo ci uccidevano. Nei giorni seguenti ricordo che i tedeschi cominciarono ad andarsene e noi cercammo subito del cibo, ma visto che erano anni che pativamo la fame, alcuni mangiarono cosi tanto che morirono poco dopo perché lo stomaco non riusciva più a digerire come prima. Quando tornai a casa bussai alla porta e aprì la mamma che rimase sorpresa nel vedermi e io le dissi: ”Sono io, non mi riconosci?”
La guerra mi ha lasciato un grande segno e ho dei ricordi molto tristi, ancora oggi quando sento dei tuoni molto forti mi prendo paura perché mi ricordano le fucilate dei tedeschi.
Testimonianza di Prima Biagini rilasciata a Daniel Venturi
Io mi chiamo Prima Biagini, sono nata il 31 agosto 1927 ed ho vissuto la seconda guerra mondiale e la liberazione di Montese, il mio paese natale, quando avevo solo 17 anni. Mi ricordo che quando eravamo sotto il dominio tedesco non c’erano né luce né acqua, nè per noi né per loro, quindi le candele erano un bene di lusso perciò quando i tedeschi, che giravano quasi o solo di notte, andavano a bussare alle porte noi aprivamo sempre senza candele in mano perché altrimenti ce le portavano via; lo stesso discorso vale anche per i beni alimentari come: sale, uova, farina, ma anche gli animali come le galline. Mi ricordo che i tedeschi, per farsi dei segnali tra di loro, lanciavano dagli aerei pezzi di legno infiammati e molte persone, anche di mia conoscenza, rimasero ferite o addirittura uccise. Poi, in quel periodo, la rocca di Montese, fu bombardata diverse volte ma, per fortuna, mai distrutta completamente grazie ad un vuoto d’aria che la proteggeva. Dopo due anni di guerra e di grande sofferenza finalmente il 14 aprile a Montese e nelle zone limitrofe arrivarono i brasiliani che ci liberarono dopo un lungo periodo di patimenti. La cosa che mi è rimasta più impressa è che la mattina in cui arrivarono i brasiliani si vedevano masse di tedeschi che si ritiravano verso il fiume, ma non capivamo cosa stesse succedendo, lo scoprimmo solo dopo alcuni giorni. Io abitavo a San Giacomo quindi le informazioni arrivavano in ritardo, ma capimmo che la guerra era finita perché non c’erano più bombardamenti. I brasiliani ci misero tre giorni a liberare Montese e dicono ancora oggi che è stata la battaglia più dura combattuta da loro in Italia.
Ricordo che la guerra è stato un bruttissimo periodo, ma anche i primi anni successivi non sono stati molto facili perché si doveva ricostruire tutto e si viveva di baratto, le uova erano la cosa più ricercata perché si potevano mangiare, ma anche il sale era molto ricercato per conservare i cibi. Oltre alle innumerevoli vite perse nella guerra, molte persone morirono anche per colpa dellemalattie, in particolare il tifo, provocato principalmente dalla sporcizia, e la difterite ( un mio parente si salvò grazie ai frati di Pavullo che avevano sempre una buona scorta di medicinali).
La mia famiglia è stata fortunata perché nessuno ha perso la vita durante la guerra.
TESTIMONIANZA DI BRUNO BATTISTINI RACCOLTA DA DEBORAH CAMURRI
Ricordo che la guerra era ancora in corso.
Qui da noi, a Montese, erano arrivati i brasiliani e un gruppo si era stabilito vicino a casa mia, a Montespecchio.
I miei genitori pensavano, come tante altre persone che cercavano di salvarsi la pelle e le poche cose che avevano, di lasciare la nostra casa e di andare a Gaggio Montano dove abitava mia zia.
Un giorno, poco prima del buio, raccogliemmo alcuni “stracci” per cambiarci, prendemmo le sei pecore, che costituivano la nostra ricchezza, e ci incamminammo verso Gaggio.
Mentre percorrevamo la via che portava a Maserno, vedemmo un susseguirsi di fuochi e sentivamo dei colpi prodotti dalle mitragliatrici nelle zone di Salto.
Ricordo di aver avuto tanta paura e non vedevo l’ora di potermi riposare nella casa della zia.
Il viaggio fu piuttosto difficoltoso, ero un bambino e mi stancavo facilmente.
Arrivati a Monteforte trovammo dei soldati brasiliani che ci aiutarono a condurre le pecore e a portare le poche cose che avevamo oltre il confine, nel territorio di Gaggio.
Ricordo che a casa della zia mi sentivo più sicuro.
C’erano i soldati che avevano montato una tenda a forma di tunnel.
Io e mio fratello ogni mattina ci affacciavamo al tendone e i soldati ci regalavano qualcosa.
Ricordo con che gioia mangiai una banana, che non avevo mai assaggiato e non sapevo cosa fosse, il cioccolato e il pane.
Forse i soldati avevano compassione di noi bambini tristi, mal vestiti e anche affamati.
Dopo qualche settimana facemmo ritorno nella nostra casa, a Montespecchio.
Non c’era più pericolo perché il nostro territorio era stato liberato, ma c’era tanta devastazione e tanta miseria.
Nonostante le difficoltà io ero contento di essere tornato a casa mia.
TESTIMONIANZA DI EVA MAGGI RACCOLTA DA ELEONORA SANTONI
La primavera del 1945 era appena cominciata. Avevo 17 anni, abitavo a Gaggio Montano e non vedevo l’ora che finisse quest’assurda guerra.
Quel pomeriggio mia madre mi disse di raggiungere a piedi un gruppetto di case a Malalbergo, dove abitava mia zia diventata mamma da pochi giorni.
Mi incamminai, ma a Ronchidoso trovai un’amara sorpresa … era pieno di tedeschi: mi fermarono, mi chiesero dove stavo andando e mi dissero che non avrei mai raggiunto Malalbergo, ma avrei dovuto andare con loro a riconoscere un partigiano fatto prigioniero.
Mi portarono in un fienile e in fondo, lo vidi, ma non lo riconobbi.
Riuscii a scappare ed andai dalla mia amica Sara, ma arrivarono nuovamente i tedeschi che lanciarono una bomba a mano contro la casa.
Dalla paura io, Sara, suo marito e il piccolo figlioletto di 3 anni corremmo fuori, mi attaccai alla gamba di un tedesco, ma lanciarono il bimbo in aria e lo fucilarono, assieme ai genitori. Ero l’unica sopravvissuta e mi fecero prigioniera. Successivamente mi unirono a quattro ragazze. Rimasi per ben 8 giorni con i tedeschi ma, grazie al mio carattere forte e deciso, mi misi subito al lavoro. Pulii scarpe, pelai patate e svolsi lavori casalinghi. Si affezionarono a me, specialmente uno che mi portò a casa dei miei genitori perché potessi salutarli e rassicurarli. Durante il tragitto vidi moltissimi cadaveri, abbandonati vicino e dentro i fienili; nella zona di Ronchidoso i tedeschi avevano ucciso tutte le famiglie che avevano in qualche modo aiutato i partigiani. Al ritorno una ragazza con me prigioniera mi disse che lo stesso pomeriggio ci avrebbero uccise. Alle 3 ci portarono nella chiesa di Castelluccio dove arrivò il tedesco che sosteneva di aver visto 5 donne aiutare i partigiani. Quando lo vidi entrare rabbrividii: era un volto conosciuto, l’avevo visto durante le mie missioni da “staffetta” dei partigiani. Indossavo un impermeabile: mi tirai il cappuccio sul volto e stetti chinata. Il tedesco fortunatamente non mi riconobbe, ci guardò ed esclamò: “Queste ragazze non le ho mai viste”. Eravamo libere. Tornai a casa dai miei genitori, vi trovai soldati brasiliani ed inglesi e la radio dopo pochi giorni annunciò la fine della guerra. Ricordo che corremmo tutti in piazza a Gaggio a suonare e a ballare, i brasiliani lanciavano cioccolata e tutti cantavamo.
Nella mia vita il ricordo dei morti di Ronchidoso non mi ha mai abbandonato.
TESTIMONIANZA DI IMELDE LEONI RACCOLTA DA CHIARA BERTONI
Mi chiamo Imelde e all’epoca avevo sei anni. Vicino a casa mia c’era un rifugio, costruito dal padre di mio marito, nella località “I Bertoni”. Quando i tedeschi sparavano delle cannonate, tutti gli abitanti di quella zona si rifugiavano lì. Ricordo con gioia un episodio in cui mio padre mi sollevò in aria per evitare che finissi dentro ad una pozzanghera mentre stava portandomi nel rifugio.
Un altro fatto ricordo bene: un giorno, pascolando le pecore con mia madre, vidi la montagna “luccicare”. Rimasi incantata da quel luccichio, poi mia madre mi disse che erano i riflessi dei fucili dei soldati.
Pensando che ormai tutto fosse finito, un giorno io ed alcuni miei amici ci recammo in una stalla per cercare delle maschere antigas, usate dai tedeschi, contenute dentro a barattoli che venivano usati per metterci le braci (una volta spente diventavano carbone). Trovammo queste maschere e, tornando indietro, sentimmo degli spari. Un mio compagno che aveva dieci anni fu colpito ad una gamba. Cadde a terra ed io lo soccorsi aiutandolo a camminare fino a casa di sua nonna la quale lo curò e lo fasciò con delle pezzuole bianche.
Avevo sentito dire dalla gente che la liberazione era vicina e si respirava aria di sollievo e gioia. Il mio papà faceva il barbiere e un giorno vennero da lui alcuni brasiliani, alti e di colore, che volevano farsi rasare i capelli. Ballavano e cantavano e mi riempirono una borsa di caramelle che poi tenevo nell’armadio molto contenta. Nonostante fossi solo una bambina questi ricordi sono rimasti impressi per sempre nella mia mente.
TESTIMONIANZA DI VITTORINA PEDRUCCI RACCOLTA DA DANIELE BERNARDI
Quando è stato liberato Montese io ero a Iola, al Faggeto, perché ero sfollata a causa dei tedeschi che ci cacciarono da Montese (ero con mio marito Aurelio Tondi). Imparammo della liberazione di Montese perché tutte le campane di ogni chiesa suonarono a festa e in paese non c’erano più i tedeschi. Non potemmo festeggiare quell’evento a causa della crisi di quel tempo, al punto che per mangiare andavamo a “casa Rocchino” dove gli americani distribuivano il rancio. Prima di arrivare a Iola sfollammo dapprima a Villa d’Aiano, poi a Sassomolare e infine alFaggeto, da qui sentivamo i colpi d’ artiglieria degli americani (che erano a Iola) e dei tedeschi (che si trovavano a Montese). Tornammo a casa dopo 40 giorni di sfollamento; la casa era danneggiata, ma per fortuna non era stata bombardata quindi non era in condizioni gravi. I tedeschi ci rubarono: 3 pecore dote del matrimonio (cioè il regalo dei genitori a un figlio appena sposato), i prodotti della macellazione di mezzo maiale e per finire 6 galline.
Io mi sposai il 12 febbraio 1945 e in lontananza sentivamo i bombardamenti. I tedeschi furono in questo caso molto gentili e ci accompagnarono da Montese alla Braina (la mia borgata natale) con un alberino addobbato con tante campanelle. Tornando a casa da Iola vidi l’alluce di un soldato tedesco morto. Ancora più macabra fu la scoperta che feci nel cercare le 6 galline già citate: nel castagneto trovai 2 soldati tedeschi uccisi e spogliati completamente.
TESTIMONIANZA DI FRANCO NICOLETTI RACCOLTA DA DANIELE BERNARDI
Quando è stato liberato Montese io ero un bimbo e insieme alla mia famiglia ero sfollato a Rocchetta Sandri, oltre il Panaro, infatti in quei duri momenti per la gente di Castelluccio che doveva abbandonare la propria abitazione si prospettavano due soluzioni: attraversare il fronte o arretrare nelle retrovie; la mia famiglia (i miei 4 fratelli e i miei genitori) scelse la seconda opzione. Capimmo che Montese era stato liberato perché le campane di tutte le frazioni suonavano a festa. Quando tornammo a casa, nella Selva, trovammo l’abitazione distrutta dalle cannonate e i tedeschi ci avevano rubato: 120 pecore (ne riconobbe una mio padre a Montespecchio che recuperò) e rubarono anche i formaggi derivanti dalla lavorazione del latte di pecora. Nel pollaio ritrovammo una cassa contenente del grano nascosto prima della guerra, quello i tedeschi non l’ avevano trovato. Nel dopoguerra noi bambini ci divertivamo a cercare le cioccolate che lanciavano gli aerei statunitensi.
TESTIMONIANZA DI CONCETTA PASSINI RACCOLTA DA DANIELE BERNARDI
Vivevo a San Martino con i miei 6 fratelli, nostro padre era a lavorare all’estero, faceva il meccanico in Etiopia ad Addis Abeba, la mamma era deceduta. Nell’ autunno del 1944 i miei fratelli insieme alla famiglia Corsini, nostri vicini di casa, costruirono un rifugio sotto una quercia; con zappa e badile avevano fatto una buca immensa, quindi l’avevano ricoperta con asce e sopra vi avevano messe tante fascine, l’ingresso era chiuso ancora con fascine. Tutte le sere vi entravamo in 11 e vi trascorrevamo tutta la notte. Nell’ inverno ’44-’45, sfollammo in 5, solo mio fratello più grande rimase a casa per seguire i nonni anziani e per controllare la casa occupata dai tedeschi. Partimmo con due mucche e sei pecore, andammo dapprima a Forno, poi alle Grotte dove passammo il fronte; di seguito a Gaggio dove da nostri amici lasciammo gli animali (dopo la guerra tornammo a prenderli). Finalmente arrivammo a Porretta T., dovevamo andare ogni giorno a firmare dai militari perché eravamo minorenni (io avevo 20 anni, ma allora si diventava maggiorenni a 21); proprio per questo motivo gli americani ci divisero, i miei fratelli restarono a Porretta T., mentre io andai a Lizzano in Belvedere perché lì avevo alcuni vicini di casa anche loro sfollati, dopo mi portarono a Castelluccio di Capugnano dove mi riunii con i miei fratelli. Qui imparammo dai soldati che era stato liberato Montese. Dopo due mesi di sfollamento tornai a casa dove ritrovai mio fratello che nel frattempo aveva ospitato 2 militari tedeschi, non più giovanissimi, che andavano al fronte per poi tornare a S. Martino a dormire; furono proprio questi due gentili signori a consigliarmi di sfollare. Questi avevano piantato centinaia di mine antiuomo e prima di andarsene insegnarono a mio fratello come disinnescarle, ne disattivò un centinaio.
I tedeschi in generale non sono stati gentili con le persone, ma io sono molto contenta perché con me si sono comportati in modo corretto.
TESTIMONIANZA DI CESARINA TURRINI RACCOLTA DA DANIELE BERNARDI
Nell’ autunno del 1944 la situazione peggiorava tutti i giorni, per sicurezza la mia famiglia si trasferì ”al Culcarello” di Castelluccio di Moscheda; ogni tanto io e mio padre, di nascosto, tornavamo a prendere quel po’ che era rimasto a casa, mio padre si fermava ad un centinaio di metri da casa nascondendosi dietro ad un pagliaio per paura di incontrare dei tedeschi, che lo avrebbero catturato; io andavo a casa, prendevo un po’ di roba e tornavo da mio padre. Su indicazione del mio papà, una volta, andai nel pollaio e trovai in mezzo al fieno, dove le galline facevano l’ uovo, una coppa di testa nascosta.
Nel febbraio del 1945 sfollai a Porretta T., partii con mio padre e una mia vicina: la “Gemma”. Prima di sfollare i tedeschi ci sequestrarono due delle tre mucche che possedevamo, l’unica rimasta la lasciammo in custodia a dei nostri amici, ma purtroppo venne ferita da colpi di mitra e morì. Prima di sfollare la nostra vicina con la scusa di andare a pascolare le pecore (perché i tedeschi controllavano gli spostamenti delle persone) andò da sua sorella a Iola e le lasciò le pecore. Il giorno dopo alle 4 di mattino partimmo per Monteforte dove ci nascondemmo in una cantina, perché era in atto un bombardamento; arrivò una cannonata che distrusse la casa, ma noi fortunatamente ci salvammo. A Iola successe una cosa stranissima: praticamente quando noi camminavamo, nelle vicinanze sentimmo il fruscio delle foglie così pensammo che fossero i tedeschi; ci fermammo per un po’, poi ripartimmo. Successivamente, varcato il fronte, mentre aspettavamo che i soldati alleati togliessero le mine antiuomo sotterrate dai tedeschi arrivarono i nostri zii e cugini, dai loro discorsi capimmo che dall’ altra parte della strada c’erano loro, che avevano le nostre stesse sensazioni, quanta paura per niente!!! Mentre noi parlavamo con i nostri parenti, la nostra guida che ci aveva accompagnato per tutto il percorso, chiese ai soldati da dove venissero e loro dissero: ”Brasilero”. Questi brasiliani ci offrirono pane bianco (senza la crusca) e cioccolato, marmellate e altre cose buone. Continuammo il cammino e arrivammo a Silla dove c’era mio zio Lino che stava facendo dei lavori sotto la guida di una guardia americana; lo zio vedendoci arrivare ci corse incontro per salutarci, la guardia ignara di quello che stava capitando credette che mio zio volesse scappare, lo raggiunse e gli mollò un calcio nel sedere. Proseguimmo e a Porretta i soldati ci chiesero se avevamo dei conoscenti o dei parenti da cui andare, noi decidemmo di andare da un nostro amico ambulante che veniva da noi per rifornirsi di galline, uova, conigli ecc… Da lui dormivamo sopra le gabbie dei conigli, senza coperte e senza cuscino. Un giorno andammo in paese e in una cucina trovammo mio fratello che vi lavorava. Proprio qui scoprimmo dai soldati e dai cittadini che era stato liberato Montese. A Porretta si mangiava tantissimo perché mio fratello lavorava per i brasiliani e quindi ci portava sempre qualcosa. Ogni domenica andavamo a messa dai frati; una domenica arrivò una cannonata e il tetto della chiesa venne colpito, non cadde, ma caddero tantissimi calcinacci. Gli italiani scapparono tutti, mentre i brasiliani restarono in chiesa senza muoversi, segno di una grandissima religiosità. Tornammo a casa il 26-4-1945 dopo sei mesi di sfollamento, la casa era distrutta ed era stato rubato tutto il grano, non avevamo più neanche una mucca. C’era una povertà tale che feci i tortelloni per i muratori, ma al posto delle uova che non avevo ci misi l’acqua, quando li misi a bollire si spappolarono.
Non avevamo proprio niente al punto che la polenta la condivamo con un po’ di aceto e basta.
TESTIMONIANZA DI MARIO TOSETTI RACCOLTA DA DANIELE BERNARDI
Quando è stato liberato Montese io ero tornato a casa mia: a ”Casa Monti” dopo che ero sfollato nelle retrovie alla Tabina di San Martino. A casa mia c’era un comando tedesco, diretto da un capitano; questi soldati vi rimasero fino alla liberazione. Proprio un tedesco, col quale eravamo diventati amici, ci avvisò che dovevamo allontanare il nostro unico maiale perché i tedeschi, prima o poi, ce lo avrebbero portato via, così mio padre lo accompagnò, dopo avergli legato una corda ad un piede anteriore, “alla Baracca” dove, in seguito, lui ed il norcino (il macellaio) Romeo (della Canova) lo uccisero; il consiglio del tedesco ci aveva fatto salvare la carne del maiale che per noi era fondamentale. I miei genitori tardarono molto a sfollare, ma mi mandarono con i miei 4 fratelli alla Tabina, dai nonni; quando furono costretti a venire via anche loro presero l’unica mucca ed il suo vitello che non voleva camminare, i miei genitori dovettero spingerlo di continuo e furono costretti a lasciare mucca e vitello da parenti ai Prati di Maserno. Alla Tabina la mia famiglia vi rimase poco più di un mese, poi decidemmo di tornare a casa; mentre tornavamo vedemmo i tedeschi che scappavano ed abbandonavano le armi, a quel punto capimmo che la guerra era finita. Per fortuna la mucca ed il vitello li avevamo salvati per merito dei nostri parenti. Quando tornammo a casa Monti la nostra abitazione era danneggiata e tutto era in disordine. Per qualche tempo abbiamo ospitato un compaesano di Castelluccio che era rimasto senza nulla, sapendo un po’ di inglese faceva la guida ai militari americani.
Testimonianza di Lina Mattioli raccolta da Claudia Tondi
Avevo sette anni quando c’è stata la liberazione di Montese e Iola.
Il giorno della liberazione i tedeschi ci avevano mandato via dalle nostre case e ci avevano fatto andare nelle case dei nostri vicini. Ricordo che nella mia casa e nel mio cortile c’erano tantissimi tedeschi che neanche volutamente mi sarei messa a contare dalla paura che avevo. Loro avevano fatto credere a me, ai miei fratelli e alle mie sorelle che se fossero venuti a casa nostra gli americani (saranno stati a 500/600 metri) ci avrebbero uccisi tutti. Alla fine capii che era solo una bugia perché quando arrivarono (i tedeschi si erano già ritirati) ci diedero tante caramelle e tanto cioccolato che era buonissimo In quel periodo stemmo benissimo perché ci davano da mangiare e ci facevano giocare.
Ricordo anche che in quei momenti avrei voluto avere la mamma vicino, ma purtroppo era morta un po’ prima che arrivassero i tedeschi. Oltretutto volevano portarci via anche il papà per farlo andare a fare delle trincee sul monte della Torraccia che io non sapevo neanche dove fosse. Per fortuna il parroco d Iola, don Alessio Verrucchi, intervenne e pregò i tedeschi di lasciare a casa il nostro papà perché eravamo tutti piccoli.
L’unica cosa di cui adesso rido, ma quando l’ho vissuta ridevo meno, è questa: un giorno due tedeschi vennero nel cortile di casa mia a mangiare le nespole mature del nostro albero e, quando mio fratello Silvio che aveva nove anni li vide, corse fuori dalla porta e urlò contro: “Raush”. In tedesco questo vuol dire “vai via”, ma lui non lo sapeva. Loro corsero in casa nostra perché volevano ucciderci, ma videro che eravamo solo dei bambini nascosti sotto il tavolo per la paura e così andarono via.
E’ stato un periodo molto brutto che è impossibile dimenticare.
TESTIMONIANZA DI FLORINI DONATO RACCOLTA DA ELISA RAIMONDI
Ricordo quando il nostro capo Benito Mussolini si alleò con Hitler ed entrammo in guerra. Quando Mussolini venne arrestato e nacque il governo Badoglio si formarono le Brigate partigiane che combattevano contro i tedeschi e i fascisti. Mentre c’era la guerra e noi sfollammo dalle nostre case.
Nei giorni precedenti la liberazione eravamo in contatto con i brasiliani che essendo muniti di mezzi di comunicazione si sentirono con altri brasiliani e ci comunicarono di aver liberato Bologna. La notizia fece velocemente il giro delle case. Presto si poteva tornare nelle nostre abitazioni.
La guerra era finita!
Testimonianza di Maria Mecagni raccolta da Mattia Tonelli
Durante la seconda guerra mondiale e nel periodo della liberazione di Montese io mi trovavo al mulino di Mamino, nella frazione di San Martino, con la mia famiglia. Il 25 aprile 1945, i tedeschi passarono davanti al mulino urlando: “E’ finita! E’ finita!” e scappando il più lontano possibile.
Durante la guerra i tedeschi rubavano tante cose al loro passaggio come galline e mucche che poi uccidevano e mangiavano.
Un giorno i tedeschi si nascosero in una casa semidistrutta e rimasero esterrefatti quando videro per la prima volta persone di colore.
Durante la guerra passavano molti sodati e prigionieri; un giorno davanti a casa nostra passò un gruppo di prigionieri tra cui c’era un soldato inglese con un forte dolore ai piedi. Si fermarono una notte nel fienile e il giorno dopo, però, ripartirono lasciando lì il soldato inglese. Mia madre, allora, cercò di curargli le ferite ai piedi. Negli stessi giorni Mussolini emanò un ordine tassativo: “Chi ospitava inglesi o americani, doveva essere giustiziato”. Per mettere il soldato al sicuro, ma anche per non correre guai noi, lo nascondemmo nella soffitta. Riuscivamo a comunicare solo grazie al latino che lui aveva studiato ed io stavo studiando. Dopo alcuni giorni si riprese e, tramite un mercante di Salto che andava a Firenze, partì.
Alcuni giorni dopo venne ucciso un maiale e mia madre e mia sorella furono incaricate di cucinarlo. Da quella pentola di umido usciva un profumino invitante e quindi non vedevo l’ora di mangiarlo, ma in quel momento una cannonata ruppe la finestra e pezzi di vetro finirono nella pentola. L’unica cosa che mi dispiacque non fu il vetro rotto, ma il fatto che non potei assaggiare l’umido!
Appena seppi della liberazione avrei voluto andare in paese per vedere cosa era successo, ma mio padre mi rinchiuse in cantina.
Testimonianza di Francesco Passini raccolta da Alessio Bernabei
Ricordo i primi bombardamenti, nell’autunno del ’44, da parte degli americani. Arrivarono dalla Toscana e si stabilirono sul monte Belvedere e a Iola. Passarono l’inverno sui monti bombardando il fronte chiamato Linea Gotica che divideva gli americani dai tedeschi. La popolazione si nascondeva nei rifugi costruiti in zone considerate più tranquille e protette dai bombardamenti. In parte si diresse verso Porretta, dove la zona era in mano agli americani. Io e i miei fratelli attraversammo la linea gotica dal mulino delle Coveraie (Maserno) fino a Iola, poi andammo verso Bombiana dove c’erano i campi di smistamento. Alloggiammo a Castelluccio di Capugnano, a casa Giannini e rimanemmo là per due mesi, in una casa abbandonata. Dormivamo sulla paglia e mangiavamo alla mensa degli americani. L’unico nostro tesoro era unamucca che avevamo portato con noi. Ci fu utile perché una parte del latte veniva venduto agli abitanti del paese. Finita la guerra, la mucca tornò a casa con noi.
Testimonianza di Gina degli Esposti raccolta da Alessio Bernabei
Con la mia famiglia abitavo a Prato Rotondo, a Canevaccia. Non eravamo sfollati perché la nostra casa era stata occupata dai tedeschi che vivevano lì. Dormivano tutti a piano terra e nell’officina che il mio papà usava come fabbro ci stavano i cavalli. Lontano dall’entrata, usando dei banconi e delle travi di legno avevamo costruito un rifugio nel quale andavamo a dormire.
I tedeschi partivano da casa nostra per andare a combattere contro gli americani: qualcuno tornava ferito, qualcuno non tornava proprio. Arrivato il giorno della liberazione se ne andarono.
Testimonianza di Quarto Poli raccolta da Beatrice Biagi
Durante la guerra sono andato a combattere in Russia. Sono partito il 13 giugno 1941, giorno di Sant’Antonio da Padova, patrono dei Bertocchi, mentre qui facevano festa. Da Mantova, insieme ad altri militari, sono giunto a Carkov, sul fronte russo. Dopo cinque mesi mi sono ammalato e, per fortuna, un medico, dopo avermi visitato, mi ha detto che potevo tornare a casa perché avevo un disturbo funzionale cardiaco. Dopo essere tornato in Italia sono stato per qualche settimana all’ospedale dove i medici mi hanno prescritto qualche mese di riposo. Così, dopo essermi riposato, sono rientrato nell’esercito insieme ai miei compagni a Peschiera sul Garda. L’otto settembre ’43, data dell’armistizio, il nostro comandante ci ha detto che chi voleva poteva tornare a casa. Per non farci riconoscere abbiamo preso dei vestiti dai contadini e, passando per strade di campagna poco frequentate, siamo ritornati nelle nostre abitazioni. A casa mia c’era un insediamento di soldati tedeschi: cucinavano il rancio da portare al fronte, cioè in Montello. In quei giorni ho ripreso la mia vecchia vita da agricoltore, alla Baldiola. L’atmosfera nell’aria era triste e malinconica perché, anche se ormai si sentiva la fine della guerra, rimanevano però le sue conseguenze: i molti morti tra cui alcuni miei parenti come mia cugina Vittoria Lucchi, torturata e poi uccisa. Era stata accusata infondatamente di aver fatto la spia contro i tedeschi. Mancava anche un altro mio cugino, Luigi Poli, che era stato preso prigioniero dai tedeschi e portato in Germania; morì sotto i bombardamenti americani. E poi c’era la distruzione di edifici storici, pubblici e residenziali, ma io e la mia famiglia sentivamo che tutto questo orrore sarebbe presto finito. Era la speranza che colmava i nostri cuori. Arrivò quell’atteso e ormai lontano aprile ’45 e i Bertocchi furono finalmente liberi grazie ai brasiliani. Ricordo quando arrivarono quegli uomini neri che ci hanno salvato la vita: il sollievo che provammo fu infinito.
In quel momento ci sentimmo fiduciosi di poter ricominciare a vivere una vita che si era interrotta anni prima.
Testimonianza di Franco Bicocchi raccolta da Lorenzo Bicocchi
Correva l’anno 1944-45, a quel tempo avevo sei anni e abitavo nella frazione di Montespecchio. Queste montagne erano il campo di battaglia di due schieramenti: partigiani contro tedeschi. Questi ultimi una sera entrarono in casa mia per cercare da bere e da mangiare: trovarono un prosciutto, formaggio e vino nascosti in cantina. Giorni dopo arrivarono i partigiani che chiesero a mio padre di scambiare il loro somaro con il suo cavallo.
Montespecchio venne assalito dai tedeschi perciò la mia famiglia ed io fummo costretti a rifugiarcipresso casa Bernardini (Maserno) da Baldini Leonello. Possedendo solamente una mucca e un biroccio ci fermammo lì per qualche giorno. Successivamente ci rifugiammo a Gabba, frazione di Lizzano, presso la famiglia Capitani. Lizzano era occupata dai brasiliani che aiutavano la popolazione. A noi bambini regalavano cioccolato e cibo. Mio fratello cucinava come cuoco con loro.
Vedendo la situazione di tranquillità che regnava a Lizzano restammo lì fino alla fine della guerra.
Testimonianza di Angela De Maria raccolta da Melissa Bernardini
Mi ricordo che, durante la guerra, prima che iniziassero i bombardamenti passava un aereo chiamato “cicogna” che lanciava bombe fumogene. Per ripararsi dai bombardamenti le famiglie erano costrette a costruirsi dei rifugi sottoterra, ma c’era un aspetto molto negativo: se fosse scoppiata una bomba sopra uno di questi rifugi saremmo morti tutti. Molti miei amici d’infanzia sono morti nel tragitto casa-rifugio. Ricordo che anch’io, un giorno, mentre stavo correndo con la mamma a ripararmi, sono stata quasi colpita da una scheggia, causa di un’esplosione.
I tedeschi presero gli uomini di ogni famiglia e li portarono a Salto, ad “inghiaiare” una strada. In realtà volevano ucciderli, ma il nostro vicino di casa Leopold Sourek che conosceva ben sette lingue, saputo che anche il suo miglior amico, il mio papà, avrebbe potuto essere fucilato andò a parlare al capo e gli disse che quell’uomo non aveva fatto niente per essere giustiziato. Grazie a lui il mio papà ha superato i cento anni e ha vissuto una vita felice.
Leopld Sourek, di origine croata, nato nel 1888, conosceva sette lingue. Arrivato in Italia, conobbe Ida Leoni: si sposarono e si stabilirono alla “Baldiola di sotto”, ai Bertocchi.
Testimonianza di Domenico Michelini e Giuseppina Passini raccolta da Jasprit Kaur
Montese fu liberata nel ’45, ma furono distrutte dai bombardamenti la torre, in parte, e la maggior parte delle case. In Comune andarono bruciati molti documenti che furono ricostruiti a fine guerra in base a conoscenze dirette, testimonianze e dichiarazioni dei singoli.
Il giorno 8 settembre 1943, due anni prima della liberazione, fu trasmessa alla radio la notizia che la guerra era finita, in realtà questa guerra era “in partenza”. Tutti erano felici e contenti, ma quando la verità venne a galla, tutto si girò per il verso sbagliato. A Castelluccio ci fu il terrore: tanti furono sepolti sotto le macerie. Anche le stalle furono distrutte e le povere mucche vennero travolte.
Vivevamo isolati: non c’erano mezzi per arrivare a Montese. Noi bambini non uscivamo neppure dalle case per paura dei militari.
Il Natale del ’44 non fu un Natale di gioia e pace, ma di dolore. Molta gente dovette abbandonare le case e oltrepassare la Linea Gotica.
Testimonianza di Norina Bernabei raccolta da Anselmo Ferrari
Mi chiamo Bernabei Dorina e attualmente abito a Castelluccio, ma durante la guerra abitavo alle Grotte di Iola che, nel ’44, si trovava sulla Linea Gotica. All’epoca avevo 16 anni e ricordo benissimo ciò che accadde in quel periodo. Il fronte di guerra era giunto in queste zone nell’autunno del ’44 a seguito dell’avanzata degli anglo-americani dal sud verso il nord dell’Italia e la conseguente ritirata dei tedeschi. Gli episodi che racconterò si riferiscono quindi al periodo che va dall’autunno del ’44 alla primavera del ’45. In queste zone quel periodo è stato molto bruttoperché si trovavano sulla linea del fronte e per la presenza di molti partigiani e fascisti che avevano aderito alla Repubblica di Salò e che quindi si contrapponevano in una sorta di guerra civile.
Uno degli episodi più cruenti al quale ho assistito si verificò nel dicembre del ’44. Un ufficiale tedesco passò con una pattuglia davanti a casa nostra e, sospettando che all’interno della stalla o dell’abitazione si trovassero dei soldati americani o dei partigiani, avvertì immediatamente una pattuglia provvista di mortai e fece eseguire un cannoneggiamento che durò per tutto il pomeriggio e tutta la notte. Nel caseggiato dove erano rifugiati solo dei civili, in tutto 46 persone, ci furono molti feriti. Io per tutto quel tempo tenni in braccio mio fratello, di appena sei mesi, che nonostante le mie cure e preoccupazioni, fu colpito alla testa da calcinacci e pianse per tutta la notte.
Un altro ricordo è questo: un mio vicino di casa era stato ferito durante un bombardamento e lo trasportarono in località “Alberelli”, dove c’era un comando tedesco, per poterlo curare. Da qui, dopo una prima sommaria bendatura, diedero una carriola a suo padre e gli ordinarono di metterci sopra il figlio e di portarlo, con quel mezzo, a Zocca dove c’era un ospedale militare, cosa che il papà prontamente fece.
Un altro episodio molto brutto che si è verificato vicino a casa mia è stato quando alcuni partigiani hanno ferito un soldato tedesco e quindi lo hanno catturato.
Mi viene in mente “la cicogna” che non era altro che un piccolo aereo da ricognizione degli anglo-americani i quali lo facevano volare per rilevare le postazioni tedesche. Il brutto era che dopo questi viaggi di ricognizione seguivano bombardamenti qua e là.
Gli agricoltori di queste parti avevano tutti le mucche e i carri detti “broz”: questi erano usati dai tedeschi per il trasporto di armi, viveri e quanto serviva al fronte. Mi ricordo benissimo che io e mio padre siamo stati costretti varie volte dai tedeschi ad attaccare il carro alle mucche e ad andare a fare questi trasporti che, fra l’altro, erano assai pericolosi perché si potevano incontrare delle pattuglie americane.
Quell’inverno del ’44 ci fu un’eccezionale nevicata, di oltre un metro di neve, seguita da un periodo molto freddo che fece sì che la neve restasse in terra fino a primavera e quindi tutti gli spostamenti che venivano fatti dovevano prima essere preceduti da un lavoro di spalatura, la rotta, per potere liberare i camminamenti nei quali passare. Per finire, ricordo bene lo sfollamento della mia famiglia dalle ”Grotte” alla “Morandella” che è una località nella vallata di Gaggio Montano che in quel periodo era già occupata dagli anglo-americani. E quindi era più sicura. Lì per la prima volta ho visto la cioccolata, le sigarette col filtro e delle bibite che suppongo fossero coca-cola. Quindici giorni dopo questo sfollamento, il fronte sulla Linea Gotica si è rotto e gli anglo-americani hanno liberato queste zone dell’Appennino.
TESTIMONIANZA DI ADA FERRONI RACCOLTA DA GAIA MILICIANI
Della guerra ricordo poco o niente perché ero piccola. Quando è stata liberata Montese avevo dieci anni. Un episodio è rimasto indelebile nella mia mente: ero in cortile con tanti altri bambini che giocavano; sui gradini di una casa c’erano alcune mamme che ci controllavano, tra cui una donna che allattava un bambino. All’improvviso arrivò un militare che prese il neonato, lo lanciò in aria e gli sparò.
A Pietracolora, dove abitai per tre mesi, ospitammo dei soldati tedeschi che mangiavano di continuo, mentre noi pativamo la fame. Tutte le mattine mia madre doveva preparare per loro il pane. Un giorno, mentre lo stava sfornando, io e mio fratello continuavamo a dirle che avevamo fame. Mia madre non resistette e ce ne diede un pezzo ciascuno: un soldato prese una sedia e iniziò a picchiarla. Lei, nonostante il dolore, ci rassicurava che stava bene.
La stufa che avevamo in casa i soldati la portarono via, su un carro trainato da buoi, con sopra anche mia madre. Quando partì, noi figli pensavamo che non l’avremmo più rivista.
Uno dei miei fratelli morì a 19 anni: un colpo di fucile l’aveva ferito ad un piede. Non potevamo curarlo perché non avevamo le medicine. I brasiliani lo portarono al di là del fronte, ma morì prima che potessero fare qualcosa per lui.
L’altro mio fratello partì a 23 anni per la Russia, ma non fece ritorno.
Mia madre da quel giorno tenne sempre la chiave sulla porta di casa aspettando il ritorno del figlio.
TESTIMONIANZA DI BEPPE VENTURI NONNO MATERNO DI STEFANO BAZZANI
Nell’aprile del 1944 io non avevo ancora compiuto i dieci anni e vivevo a Castel d’Aiano con mio padre e mia sorella, mentre i miei fratelli maggiori erano nella Repubblica partigiana di Montefiorino (Mo). Essi combattevano insieme agli americani e agli inglesi contro la Germania del dittatore nazista Adolf Hitler e contro la Repubblica di Salò (Italia Settentrionale) fondata da Benito Mussolini dopo che per vent'anni era stato il dittatore fascista, Duce di tutta Italia.
La parte meridionale dell' Italia era già stata occupata dagli Anglo-Americani.
Eravamo in chiesa per la messa domenicale e quando uscimmo, verso mezzogiorno, i militari fascisti bloccarono tutta la popolazione presente nella piazza del paese.
Vedemmo che i fascisti avevano arrestato tre uomini di Montese accusati di essere partigiani.
Li misero contro il muro vicino alla fontana della piazza e li trucidarono senza pietà . Io, spaventato come tutti gli altri, corsi via a cercare mio padre, ero davvero molto terrorizzato perché era la prima volta che vedevo ammazzare un uomo, era la prima volta che vedevo morire qualcuno. Oggi non ricordo altro di quella giornata tristissima, la mia mente ha cercato di rimuovere tutto quell'orrore, tutto quel dolore, tutte quelle grida di donne.
Intervista alla nonna di Alessio Bernardoni, Silveria Romanelli. Testimonianza raccolta da Alessio Bernardoni.
Era il 1944, stavamo passando il fronte, io e la mia famiglia, diretti in un posto più sicuro dove poter vivere, un posto dove non ci fossero bombardamenti e rappresaglie quotidiane da parte dell'esercito tedesco. I tedeschi però, purtroppo, ci videro e aprirono il fuoco; fortunatamente e solo per puro miracolo non ci furono feriti o morti. Dopo molti chilometri, attraversando il bosco, arrivammo alla Corona. Ci caricarono in una camionetta e ci portarono a Porretta, dove c’era il comando dell’ esercito tedesco. Dopo un interrogatorio durante il quale ci chiesero se avevamo parenti maschi che facessero parte della resistenza armata ci minacciarono di torture o nel migliore dei casi di finire nei campi di concentramento a Firenze. Per nostra fortuna erano solo minacce a vuoto e, dopo tanto spavento, ci rilasciarono.
Un giorno da Corona stavo andando sul monte Belvedere e attraversando il bosco mi trovai davanti un soldato tedesco morto. Io ebbi tanta paura e, da quel giorno, non sono più passata per quel bosco.
Intervista al nonno di Alessio, Bruno Bernardoni. Testimonianza raccolta da Alessio Bernardoni.
Mio nonno mi ha raccontato che suo padre era andato in un frutteto a rubare delle pere insieme adue suoi amici, c’era poco da mangiare nelle case e c’erano tante bocche da sfamare soprattutto di bimbi, quando improvvisamente arrivò un caccia tedesco che aprì il fuoco con le sue mitragliatrici. Mio nonno ed i suoi amici subito scapparono e si buttarono in un fosso, i proiettili vagavano sulla superficie della terra e passarono molto vicino a loro senza neppure ferirli. Dopo molti giri il caccia se ne andò credendo di averli colpiti.
Il padre di mio nonno avrebbe dovuto partire per l’Africa con parte dell’ esercito italiano e ogni giorno, per quaranta giorni, andò dal medico fingendo di avere mal di pancia. Alla fine riuscì a farsi rilasciare un certificato medico con una diagnosi per la quale gli fu concesso di non partire, potè così salvare la sua vita e avere la possibilità di veder crescere i suoi figli.
Intervista alla nonna materna di Riccardo Credi, Ivonne Bonucchi. Testimonianza raccolta da Riccardo Credi.
Mia mamma era andata a prendere il pane con un’altra signora, io a quei tempi avevo circa dieci anni. Quando stavano tornando verso casa, attraverso il bosco perché volevano evitare gli attacchi tedeschi, essi le avvistarono e iniziarono a sparare. La mia mamma venne colpita alla gamba e la signora che era con lei scappò. Mia mamma si stese a terra e si mise una pietra sull’orecchio forse per non sentire lo sparo che l’avrebbe uccisa. Ma i tedeschi, vedendo che non si muoveva, pensarono di averla uccisa e se ne andarono. Lei, anche se ferita, riuscì ad arrivare a casa e ci raccontò l’accaduto.
Intervista ai nonni di Riccardo Bernardoni. Testimonianza raccolta da Riccardo Bernardoni.
Testimonianza di Bruno Bernardoni, età 82 anni. Ha vissuto la guerra quando aveva quattordici anni; ricorda che ci si nascondeva nei rifugi, uno di questi era dietro la farmacia oppure nelle fogne, giù in Bago. Ci si nutriva di patate, castagne, poco grano e l'acqua si prendeva in Piazza 4 Novembre alla fontana, però bisognava aspettare la notte così non c'erano i bombardamenti, ma bisognava stare attenti ai soldati che erano sempre in giro a perlustrare la zona. Alla Lienda c'era il comando generale tedesco, di conseguenza tutta Montese era sottomessa all'esercito tedesco. Mio zio Bruno insieme ad altri uomini di Montese, aveva costruito bagni e grandi forni per sterilizzare i vestiti dei soldati tedeschi: gli indumenti venivano messi dentro al forno insieme ad una pastiglia: quando si era sciolta il vestito era pronto. Mio zio Bruno aveva il compito di fare fuoco nella caldaia usata per sterilizzare i vestiti dei soldati, un giorno mise troppa legna, perciò la temperatura del forno si alzò e bruciò i vestiti. Un soldato tedesco si arrabbiò tantissimo, tanto che voleva quasi ucciderlo, per fortuna un altro soldato lo difese e non lo uccisero. In un posto chiamato Pianello c'erano tre cannoni finti, fatti di legno, li avevano costruiti alla Lupinella in modo che bombardassero quelli finti e non quelli veri.
Mio nonno a quindici anni si era ferito a una gamba per colpa di una mina: era insieme a suo zio, stavano passeggiando, andavano in Bago, le mine erano disposte tutte di fianco alla strada con l'intendo di uccidere dei partigiani ma, come spesso accadeva, ad essere colpiti erano i civili, infatti quella volta una mina esplose e una scheggia finì nella gamba di mio nonno.
Intervista a Giovanna Bertarini nonna di Benedetta Picchioni. Testimonianza raccolta da Benedetta Picchioni.
In un primo momento lasciammo la nostra casa perchè eravamo disturbati dai tedeschi e dai partigiani, ci trasferimmo vicino ad un mulino dove pensavamo di essere più sicuri. Possedevamo un piccolo negozio a Villa D'Aiano, dove avevamo un pò di tutto, e nascondemmo il cibo in un granaio che, a nostro avviso, era più sicuro. Purtroppo una notte ci fu un bombardamento e si incendiò il fienile. Quando arrivarono i tedeschi aprirono tutte le porte, slegarono tutte le mucche e noi andammo a nasconderci nella cantina della casa vicina. Le cannonate erano arrivate anche lì, infatti il fienile si incendiò e la roba da mangiare bruciò e il fuoco rimase ardente per otto giorni, cosicchè rimanemmo senza cibo. La mattina dopo decidemmo di andare in un rifugio naturale che era sopra alla casa, in un fitto bosco, del quale pochi conoscevano l'esistenza. Purtroppo la notte vedemmo una luce venire dalla porta: erano i tedeschi. Noi da dentro la casa dicemmo: “ Ohi, qui ci sono civili!“. Intanto essi avevano piazzato una mitragliatrice fuori dalla porta. Furono gentili con noi perchè ci portarono due pagnotte di pane e altre delizie, ma noi avemmo paura, perchè gli americani avanzavano sempre di più e impauriti il giorno dopo decidemmo di attraversare il fronte. Così una mattina molto piovigginosa ognuno di noi si mise addosso tutti i vestiti che aveva e accompagnati dal cane Jack attraversammo a piedi due montagne. Finalmente arrivammo a Bombiana dove c'erano i nostri parenti che ci ospitarono. Il 21 aprile la guerra era finita e pochi giorni dopo mio fratello che aveva sei anni morì giocando con una bomba a mano. Jack, il nostro cane portò ai nostri parenti un biglietto con scritto che eravamo arrivati.
Intervista a Livio Bernardoni nonno di Caterina Michelini. Testimonianza raccolta da Caterina Michelini.
Montese si trovava proprio sulla linea del fronte e i montesini si ritrovarono a vivere situazioni davvero molto dure, di pericolo e privazioni di ogni genere.
La scarsità di cibo era costante, i tedeschi requisivano quel poco di cibo che veniva dal duro lavoro nei campi. Si viveva con la costante paura dei bombardamenti, durante i quali ci si nascondeva nei rifugi scavati sotto alle case o in quelli improvvisati nei boschi circostanti. Oltre ai bombardamenti vi erano regolari rappresaglie dei tedeschi nelle case in cerca di partigiani, la cui azione fu decisiva per la liberazione della Nazione dai tedeschi. Non mancavano le rappresaglie dei fascisti che facevano azione di guerriglia civile contro i loro stessi concittadini per difendere i tedeschi che erano nostri alleati, almeno in un primo momento.
Molte famiglie per evitare di vivere la terribile esperienza dei bombardamenti attraversavano il fronte per raggiungere i territori già liberati dagli americani.
Il nonno Livio Bernardoni attraversò anch'egli con la sua famiglia il fronte arrivando a Monteforte dov'era stanziato l'esercito americano, ma altri furono meno fortunati di lui perché, attraversando il fronte, finirono in campi minati e saltarono in aria insieme ad una mina calpestata incidentalmente.
TESTIMONIANZA DEI NONNI DI CHIARA QUATTRINI. Testimonianza raccolta da Chiara Quattrini.
Quando l‘Italia è entrata in guerra, la famiglia del mio bisnonno abitava in un paesino, chiamato Missano, vicino Zocca. Era composta da papà Aderilio Mezzadri, mamma Flavia Baraldi e sei figli: Ornella, Claudio, Anna, Gaetano (Tanino), Carmen e Ivo il mio bisnonno. Il trisnonno Aderilioaveva già partecipato alla prima guerra mondiale, così quando scoppiò la seconda toccò a Claudio partire per il fronte, il suo primo figlio maschio che rientrava proprio nell’annata che avevano richiamato. Era il 1941 e fu mandato in Russia da dove continuò a mandare delle lettere fino al gennaio del 1943; poi non si ebbero più notizie di lui e fu dato per disperso. Nel frattempo, il mio bisnonno Ivo era rimasto a casa, aveva soli tredici anni, era un Balilla e nelle manifestazioni paesane, indossava una camicia blu, pantaloni verdi e un cappellino con il fiocco. Le femmine indossavano una camicia bianca, una gonna nera e un fiocco azzurro al collo. I fascisti e i nazisti indossavano una divisa grigio-verde e un “ fez ” cioè un cappello nero. Ivo, a diciassette anni, forniva informazioni a suo cugino, che era capo formazione di un gruppo di partigiani, sui movimenti dell'esercito tedesco e fortunatamente non venne mai scoperto. Ivo tutte le sere andava a casa di sua zia per ascoltare Radio Londra (cosa proibita) e tramite essa, veniva informato dell’arrivo dei tedeschi cosicché poteva avere il tempo di scappare e nascondersi nei boschi.
In quei tempi il cibo si razionava e poteva essere acquistato solo con una tessera distribuita dal governo. Non si poteva acquistare più di un chilo di pane nero, di pasta e verdure; questo portò alla nascita del mercato nero, un commercio clandestino grazie al quale si poteva acquistare altro cibo a prezzi più cari, era necessario farlo perché il cibo razionato era insufficiente per la sopravvivenza delle famiglie. La carne si mangiava due o tre volte l’anno; per condire i cibi si usava pochissimo sale e l’olio era troppo costoso per essere comprato. A scuola in quei tempi c’era un unico libro di testo, le classi erano miste e c’era un unico maestro. Ivo lavorava per ordine dei tedeschi vicino al fiume dove un giorno un apparecchio degli alleati li bombardò. Ci furono un morto e un ferito, che dopo poco tempo morì. Dopo questo avvenimento i tedeschi li portarono nei rifugi che furono abbattuti, in seguito, dagli alleati.
Invece la mia bisnonna Fernanda Passini ricorda che una volta al mese le bambine dovevano indossare la divisa da Balilla e andare a piedi da Missano fino in piazza a Zocca, dove i tedeschi insegnavano loro tutti i comandi militari e le facevano cantare ”Faccetta nera” poi, come premio per invogliarle a tornare il mese dopo, le portavano all’osteria e compravano loro una focaccina, cibo prelibato in quei tempi.
La mamma del mio papà, la nonna Luisa Mazzini, quando è scoppiata la guerra aveva quindici anni e abitava a Sasso Guidano (Pavullo), sotto alla sua casa avevano scavato e costruito un rifugio molto grande: ci stavano fino a quattro famiglie molto numerose. Così quando gli alleati sparavano i fumogeni loro sapevano che stavano per iniziare i bombardamenti e subito andavano a ripararsi dentro quel rifugio. Però, prima di scappare a nascondersi, aprivano tutte le finestre per evitare che si rompessero tutti i vetri a causa della deflagrazione della bomba.
Un giorno la mia nonna era già andata a ripararsi nel rifugio, quando si è ricordata di non averli aperti così è uscita per andarlo a fare ma, mentre raggiungeva la casa, hanno sparato una cannonata che l’ha sfiorata e l’ha sbattuta contro un muro della casa ricoprendola di detriti, per fortuna se la cavò solo con una gran paura.
La nonna racconta anche che i tedeschi per rappresaglia bruciarono tante case intorno alla sua, gli abitanti erano sospettati d'aver aiutato i partigiani. Durante gli anni della guerra andarono a casa sua due tedeschi: un sergente e un caporale, essi reclutavano uomini civili, pagandoli, per costruire postazioni tedesche. Però reclutarono solo il fratello della nonna perché volevano che suo padre stesse a casa, pagato ugualmente, perché cucinasse per loro la polenta di frumento con le uova.
IL RACCONTO DELLA NONNA MARIA MONFARDINI. Testimonianza raccolta da Cristina Lancellotti.
La nonna mi ha raccontato che durante la Seconda guerra mondiale lei era piccola, aveva solamente sei anni e ricorda che all’arrivo dei tedeschi, quasi tutti gli uomini adulti, come suo padre, erano sfollati in paesi vicini dove non c'era il fronte di guerra (per es. Porretta Terme). Non ebbero più notizie di lui fino a quando la guerra non fu finita, ma speravano, durante il periodo della sua assenza da casa, che fosse arrivato in un luogo sicuro. Al suo ritorno raccontò loro che era stato ospitato da persone che non conosceva, ma ugualmente molto gentili e generose, che dividevano tutto quello che avevano con lui e con altri uomini come lui, egli raccontò inoltre di essere stato, anche lui, in pensiero per la sua famiglia.
Pur avendo sei anni, la nonna, durante tutto il periodo della guerra, non è potuta andare a scuola perché era stata chiusa e, naturalmente gli insegnanti non c’erano. Quindi ha iniziato la scuola all’età di sette anni quando era ormai finita la guerra.
Durante quel periodo rimanevano quasi sempre chiusi in casa, per stare più al sicuro e le è rimasto impresso il fatto che, lei insieme ai suoi fratelli, stavano sempre con sua mamma perché pensavano che se fosse arrivata una bomba, almeno erano tutti insieme e insieme sarebbero morti.
Si ricorda inoltre che quando arrivarono i soldati tedeschi, li obbligarono a spostarsi nella casa vicina perché la loro cucina serviva da infermeria per curare i feriti.
IL RACCONTO DEL NONNO SERGIO BOCCHI . Testimonianza raccolta da Cristina Lancellotti.
Il nonno mi ha raccontato che quando c’era la guerra aveva circa sei anni e ricorda che un giorno, mentre era in giardino a giocare, d’ un tratto, dai monti, sentì lo scoppio di una bomba. Il giorno dopo vide che la ringhiera del giardino era stata tagliata dalla scheggia di una bomba: che paura! Per fortuna lui non si trovava lì in quel momento.
Si ricorda anche che quando arrivarono i soldati i suoi genitori nascosero quasi tutte le loro cose in un grande baule, che poi seppellirono sotto terra, sperando di tornarle a recuperare una volta finita la guerra.
Andarono poi via da casa, per raggiungere un posto dove non ci fosse il fronte; mentre erano in viaggio tutto d’un tratto gli scoppiò davanti una bomba. Fortunatamente tra mio nonno e la bomba c’era un albero di castagno che lo protesse, anche se gli andò la terra negli occhi e dallo spavento si mise a piangere.
I bambini come lui andavano nelle cucine dei soldati, allungavano un “bussolotto” e questi davano loro del cibo perché capivano che erano affamati, mentre gli adulti andavano nelle case di campagna a cercare qualcosa da mangiare, in cambio di qualche moneta.
IL RACCONTO DELLA NONNA ELENA GIACOBAZZI. Testimonianza raccolta da Cristina Lancellotti.
La nonna Elena durante la guerra aveva circa sette anni e ricorda che un giorno ha visto arrivare la prima cannonata che ha ucciso una donna.
Le avevano consigliato di dormire a piano terra perché sembrava che fosse più sicuro, quindi loro, per stare tutti insieme, si ritrovavano a dormire anche per terra.
Ricorda che per strada si vedevano tanti feriti e dei morti e lei ne restava ogni volta sempre più spaventata.
Quando passavano gli aerei lei, per la paura, si metteva a piangere; immaginava che qualcuno sarebbe morto sotto le bombe.
Anche i genitori della nonna Elena cercarono di nascondere la biancheria in un posto sicuro, cioè nella stalla dove mangiavano le mucche. Un brutto giorno, quando i soldati americani fecero esplodere la loro stalla, riuscirono a recuperare appena in tempo la roba, prima che andasse tutto bruciato.
Durante la guerra ci fu un’invasione di pidocchi, si trovavano ovunque, nelle coperte dei soldati e perfino nelle sopracciglia.
Quando è finita la guerra, per terra c’erano bombe inesplose ed altre armi da guerra e tante persone sono morte, oppure sono rimaste gravemente ferite, toccandole o calpestandole involontariamente.
Alla fine della guerra per le strade si vedevano passare tante persone con dei “fagotti”, che tornavano nelle loro case, la vita poteva ricominciare, si poteva riprendere a sperare in un futuro migliore per sé e per i propri figli.
INTERVISTA ALLE NONNE DI FEDERICA FENOCCHI. Testimonianza raccolta da Federica Fenocchi.
Io ho intervistato le mie nonne Ida Ricci ed Irene Bernardi circa i lori ricordi sulla Seconda guerra mondiale, non è stato facile perché la nonna Ida aveva solamente otto anni a quei tempi e quindi era piccola, la nonna Irene aveva sedici anni, ma la sua memoria giocava brutti scherzi, gli anni iniziavano ad essere tanti così come i danni della vecchiaia: nonna Irene infatti è morta pochi giorni dopo avermi rilasciato questa intervista.
Uno dei primi episodi raccontati da mia nonna Ida è stato quando per la prima volta ha assistito al lancio delle bombe, dagli aerei, chiamate “Bengala”, le quali provocavano grossi spostamenti d’aria. A lei è capitato alcune volte, quando camminava per strada, che lo spostamento a seguito del lancio della bomba, la facesse scaraventare dall’altra parte della strada.
Per ripararsi dalla caduta delle bombe o dalle incursioni dei militari tedeschi avevano scavato dei cunicoli sotterranei, precisamente a Iola in località “Vecchie dei Monti”. All’inizio si riparavano lì solo di notte poi, con il passare del tempo e l’ incrementarsi dei combattimenti, anche durante il giorno. Quando tutte le persone erano riparate nel rifugio sotterraneo, all’entrata vi mettevano rami, paglia, foglie secche per camuffare l’ ambiente e nasconderlo alla vista dei nemici. La nonna aveva molta paura a rimanere sotto terra chiusa, infatti ancora oggi ha difficoltà quando si trova in un luogo chiuso, senza una piccola fessura aperta.
Dopo un lungo periodo a Iola iniziarono dei forti combattimenti essendoci la guerra in prima linea,quindi mia nonna e la sua famiglia radunarono le loro tre mucche ed alcuni vestiti e fuggirono a piedi: prima si fermarono un periodo nella località di Bombiana, poi a Capugnano.
Quando percorsero il tragitto da Iola per Bombiana alla sorella della mia nonna che aveva dieci anni, scappò la sua mucca per la paura dei forti boati delle bombe. Lei iniziò ad urlare disperata dicendo: “E’ scappata la mia mucca Ronda!”.
In quel momento un soldato tedesco rubò la mucca e scappò, un altro soldato ebbe pietà di lei e le chiese: “Bambina perché piangi così disperata? Ti sei fatta male?”.
Lei rispose: “Piango perché mi hanno rubato la mia mucca Ronda!”.
Il militare le disse: “Prometto che te la farò riavere!”.
Infatti il giorno successivo la riportò.
Successivamente ripartirono sempre a piedi da Bombiana verso Capugnano e il tragitto lo fecero durante la notte per nascondersi dai militari tedeschi. La nonna mi racconta di non aver mai dimenticato il sibilo dei proiettili e delle bombe che cadevano vicino ad un ponte di ferro a Silla.
Arrivati nel paese di Capugnano vennero ospitati da una zia della nonna, la quale aveva allestito, montando reti e letti in un sotterraneo della propria casa, un dormitorio per tante persone. Durante il giorno, all’ora di pranzo, con dei secchielli andavano alla Chiesa di Capugnano dove era installata la cucina dei militari brasiliani. Si mettevano in fila per poter prendere il pasto giornaliero chiamato “rancio”, non dimentica il “Mingao” che era tipo cioccolata molto liquida che i militari regalavano in abbondanza ai bambini. In qualsiasi momento del giorno e della notte, quando improvvisamente si sentivano esplosioni di bombe o combattimenti con fucili o carri armati, loro dovevano essere sempre pronti a fuggire da un luogo all’altro.
Alla mia bisnonna i fascisti rubarono tutto l’oro e la biancheria che aveva ricamato a mano dicendo che doveva essere donata alla patria.
All’altra mia nonna, Irene, la guerra ha segnato la vita: durante un combattimento a Iola una bomba, lanciata da un aereo, uccise la sua mamma Rosa. La nonna in quel periodo rimase sola con i suoi fratelli Bettino, di sei anni, e Bruno di ventisei anni perché il loro papà era in America a lavorare in miniera. Fortunatamente il fratello maggiore Bruno era sposato e quindi la moglie Elisa sia alla nonna che al fratello minore fece da mamma.
Un altro episodio doloroso per la nonna è stato quando il fratello Bruno si trovava nel bosco a tagliare legna e, non accorgendosi che c’era una delle tante bombe inesplose, perse tutte e due le mani.
Sia alla nonna Irene che alla nonna Ida la guerra ha lasciato bruttissimi ricordi: persone morte o che avevano perso parti del corpo, tanta paura e povertà, quindi augurano a tutti di non provare mai nella loro vita l’esperienza della guerra.
Le testimonianze dei nonni di Federica Passini: Franco Biondani, nonno materno. Testimonianza raccolta da Federica Passini.
Mio nonno aveva tre anni quando iniziò la Seconda guerra mondiale. Egli ricorda che furono sfollati, cioè dalla città di Bologna andavano in campagna, si erano rifugiati in una grotta assieme ad altre famiglie, per paura dei bombardamenti tedeschi.
A quel tempo si pativa la fame e quel po’ che possedevano i contadini, frutto del loro duro lavoro, veniva rubato dalle pattuglie tedesche.
Quando il fronte, la linea che separava i due eserciti, si avvicinò a Montese le cannonatecadevano vicinissime alla casa di campagna dove si erano rifugiati, quindi tornarono a Bologna e allora poterono vedere che circolavano ancora i tram. Essendo sera, quando tornarono aBologna, si ricorda ancora il cielo rosso a causa delle cannonate dalle quali furono accolti.
Tornando a Bologna non trovarono più la loro casa di città, era stata distrutta durante un bombardamento aereo, così essi furono costretti ad andare ad abitare in un palazzo del Comune di Bologna dove lavorava il papà del mio nonno.
Luciana Monari, nonna materna. Testimonianza raccolta da Federica Passini.
La mia nonna essendo molto piccola ricorda poche cose. Lei ricorda che vivevano in cantina dove c'era una montagna di patate; come gioco salivano e scendevano dalla montagna di patate con i suoi fratelli.
In quel periodo si cucinavano spesso i ceci.
Vagamente si ricorda che anche le sue zie erano sfollate fuori dal paese e si erano rifugiate a casa sua. Dopo un po’ sono dovuti sfollare a causa dei bombardamenti: si sono rifugiati oltre il monte Belvedere in una casa chiamata Morandella.
Mentre essi attraversavano il monte che divide il modenese dal bolognese, li fermarono i soldati brasiliani, la mamma della mia nonna era davanti a tutti e portava in braccio la mia nonna. Questi soldati le chiesero alcune notizie sul luogo da cui provenivano al fine di conoscere i movimenti dell'esercito tedesco, la mia bisnonna rispose loro quel po’ che sapeva. Questi soldati furono molto comprensivi: le diedero un po’ di cioccolato e li aiutarono ad attraversare la linea gotica.
ADOLFO PASSINI, NONNO PATERNO. Testimonianza raccolta da Federica Passini.
A causa dei bombardamenti il mio nonno è sfollato verso Castelluccio di Capugnano mentre la sua famiglia è restata a casa perché dovevano governare il bestiame, anche se gran parte di esso era stato preso dai soldati tedeschi.
In quella zona vi erano i soldati americani e brasiliani, lì vi erano le postazioni per bombardare Montese e le zone vicine.
Durante la guerra mio nonno, insieme ad altri ragazzi, viveva in una casa che gli avevano prestato; si procurava da mangiare attraverso i soldati oppure dai vicini: il pane lo andava a prendere con una tessera a Porretta Terme.
E' partito da casa sua nel dicembre del 1944 ed è tornato a casa nell’aprile del 1945.
Il nonno ricorda che le prime cannonate sono arrivate a settembre del 1944, a soli duecento metri dalla sua casa.
ARIANNA GUIDI, NONNA PATERNA. Testimonianza raccolta da Federica Passini.
Mia nonna abitava alle Grotte di Iola: in questa località era situato il fronte. A casa della nonna distribuivano il cibo per i soldati tedeschi; cuocevano le vivande in una casa chiamata Rondoni.
La famiglia della mia nonna era obbligata ad andare a prendere le vivande con un carro trainato da buoi.
Da casa di mia nonna passavano i soldati diretti al fronte e tornavano indietro i soldati che erano stati feriti durante i combattimenti al fronte.
In un fosso di fronte a casa di mia nonna avevano costruito, con dei tronchi di abete, tre rifugi dove poter dormire e ripararsi durante i bombardamenti o le rappresaglie tedesche.
Dopo un po’ di tempo sono stati costretti ad andare a circa un chilometro di distanza.
Facevano da mangiare la notte perché altrimenti i soldati vedevano il fumo, lo facevano solo per non farsi scoprire dai soldati tedeschi.
INTERVISTA A DOMENICO GUALANDI. Testimonianza raccolta da Alice Boschi.
Nonostante il mio bisnonno Domenico sia morto e non ho potuto quindi intervistarlo, mi sono fatta raccontare la sua storia da mio nonno Giuseppe Gualandi e dai miei parenti che, in sua memoria, hanno scritto un libro intitolato “Come cuccioli in mezzo alla tempesta“.
Dovete sapere che Domenico nasce il 25/05/1925 e che durante la Seconda guerra mondiale aveva diciotto anni. Il mio bisnonno essendo in età ritenuta utile per entrare nell'esercito, è stato costretto ad arruolarsi. Dopo qualche giorno è fuggito ed è tornato a casa, ma purtroppo i Carabinieri, tenendo in ostaggio i familiari, lo hanno costretto ad andare in prigione: qui gli hanno tagliato i capelli e lo hanno tenuto senza cibo e acqua per diversi giorni.
Proprio mentre egli era in prigione, questa fu bombardata e crollò il soffitto dell’edificio. Sopravvissuto fu costretto a partecipare agli addestramenti durissimi ai quali venivano sottoposte le giovani reclute, durante l’inverno.
Erano obbligati ad addestrarsi tutto il giorno e a bere nell’abbeveratoio dei cavalli e spesso l’acqua era gelata. Poi lo hanno trasferito in un piccolo paesino di fronte all’isola d’Elba di nome Usigliano ed è stato costretto a fare la vedetta e a dormire dentro ad un pollaio pieno di topi. I fascisti lo hanno obbligato a camminare con un grosso zaino e gli hanno dato da mangiare solo pane e acqua, il suo tenente lo minacciava anche con la pistola. Stanco di questa situazione e contrario a tutte quelle cattiverie che i fascisti stavano compiendo su tutto il territorio italiano, ha deciso di lasciare l’esercito e disertare. Si trovava a Cecina quando ha deciso di scappare assieme ad un suo amico di Montese il sig. Stelio Credi. Da Livorno hanno attraversato campi, boschi, torrenti, sempre di notte per paura di essere trovati e sono riusciti ad arrivare a casa.
Hanno sempre mangiato quello che trovavano: frutta, verdura, addirittura radici, bacche, quando non riuscivano a trovare da bere cercavano di mangiare dei cetrioli. Alcune volte sono stati aiutati da altri partigiani e dalle famiglie di questi partigiani. Una famiglia regalò loro addirittura i vestiti del figlio, partito anche lui per la guerra, e finalmente poterono togliersi la divisa militare e nascondersi meglio. Lungo il viaggio si lavavano durante i temporali e si asciugavano al sole. Hanno impiegato mesi per arrivare a Montese, il viaggio è stato lungo e molto faticoso. Una voltaarrivati a Montese si sono sempre dovuti nascondere perché, essendo considerati disertori, se li avessero trovati sarebbero stati torturati e fucilati.
Sono stati per diversi mesi costretti a nascondersi sotto lo sterco delle mucche per riuscire a sfuggire ai raid sempre più frequenti che facevano i tedeschi. Qualche volta lui e i suoi amici hanno dormito in soffitta dietro ad un armadio. Intanto la guerra continuava ed i fascisti diventavano sempre più cattivi; mi ha raccontato il nonno Giuseppe che un gruppo di soldati tedeschi caricarono tre Montesini su un camioncino, li portarono davanti al cimitero e li fucilarono senza un reale motivo e senza nessuna pietà verso un essere umano.
Un'altra volta catturarono a Maserno un amico del mio bisnonno di nome Carlo Bernardoni, si fecero dare dalla signora dei tabacchi un contenitore di cemento abbastanza grande da poter intrappolare un uomo, lo legarono e lo portarono in Toscana.
Solo dopo dieci anni il mio bisnonno ha scoperto, grazie ad un contadino toscano che Carlo venne ucciso senza pietà.
Da Montese Domenico con altri suoi amici andarono a Rocchetta, e poi a Montefiorino dove hanno vissuto nascosti con gli altri partigiani e hanno formato la Divisione Garibaldina di Armando.
Si nascondevano ovunque: una volta si sono nascosti dentro ad una stalla, sotto le pecore e c’era una puzza terribile perché era estate. I partigiani per non essere scoperti si erano dati dei soprannomi, per esempio il mio bisnonno si chiamava Tempesta. Tutti mi hanno detto che era proprio una tempesta e che ha guidato ed aiutato diversi partigiani. Ci sono stati tanti scontri, la popolazione li teneva sempre informati e spesso li aiutava portando loro qualcosa da mangiare e da bere. Una volta lo hanno aiutato a mettere degli alberi in mezzo alla strada per impedire che passasse un camion pieno di tedeschi. Bloccata la strada i soldati furono costretti a proseguire a piedi e senza tante armi, il mio bisnonno e i suoi compagni attaccarono i tedeschi, ne uccisero diversi e fecero sette prigionieri che consegnarono agli americani. Dopo Montefiorino andarono a Lizzano dove ci fu lo scontro più grande. Qui, però, il mio bisnonno cadendo da un muro alto sei metri si ruppe il femore ed il bacino.
I suoi amici lo trasportarono e lo nascosero dentro ad una stalla, ma gli venne la febbre alta ed entrò in coma. Per farlo riprendere dal coma gli misero una pietra rovente in bocca che gli bruciò il palato ed il naso, ma si riprese. Lo portarono di nascosto all’ospedale di Firenze, dove conoscevano dei dottori partigiani. Nel frattempo la guerra stava per finire e hanno portato il nonno all’ospedale Rizzoli di Bologna dove è rimasto ingessato e ricoverato per cinque anni fino al 1949 quando aveva ventiquattro anni. Da allora ha sempre zoppicato e non riusciva a mettersi da solo le scarpe ed è stato operato tante volte. Al mio bisnonno sono state date diverse medaglie al valore e diplomi d’onore al combattente per la libertà d’Italia.
E’ stato proprio un forte combattente e noi in famiglia siamo tutti fieri di lui.
INTERVISTA AL NONNO AGOSTINO VENTURI. Testimonianza raccolta da Nicole Venturi.
Il mio nonno Agostino durante la Seconda guerra mondiale faceva il soldato e ha partecipato attivamente alla guerra, quindi aveva un sacco di cose da raccontarmi.
La cosa più incredibile che mi ha raccontato è che fu fatto prigioniero dai tedeschi mentre si trovava a Malles, è stato portato in Germania, in un campo di prigionia in un paesino vicino a Berlino. Il nonno mi ha raccontato che in questo campo di prigionia c’erano delle camerate dove dormivano 20-30 prigionieri subrande di legno, a castello, con materassi di foglie. La mattina i soldati li svegliavano alle cinque e li facevano andare in cortile, si dovevano mettere in fila tre alla volta, poi venivano divisi in gruppi che partivano per i campi di lavoro.
Mangiavano sempre poco e male, molte rape crude, a volte cotte e una volta a settimana davano i piselli cotti che a loro sembravano buonissimi. Mentre andavano ai campi di lavoro se capitava loro di trovare ai bordi della strada delle ciliegie cadute o delle patate dovevano lasciarle per terra, se qualcuno per la troppa fame le raccoglieva veniva ucciso all’istante.
Quando c’erano dei bombardamenti suonava un allarme e invece di uscire dalla porta delle camerate, che era troppo lontana, i prigionieri avevano scavato un buco profondo nel pavimento e ci si buttavano dentro uno sopra l’altro e stavano lì ammassati finché non smetteva di suonare l’allarme. Durante i bombardamenti, quando cadevano bombe vicino al campo,le porte delle camerate si scardinavano e a volte le pareti cedevano. Il nonno mi ha detto che loro non potevano scrivere a casa ne’ potevano ricevere posta, ma solo pacchi.
Lui non aveva potuto comunicare ai suoi di essere stato fatto prigioniero, ne’ dove si trovava, ma loro non si sa come erano riusciti a scoprirlo e un giorno gli arrivò un pacco da casa. I tedeschi lo controllarono, dentro c’erano dei panini che aveva fatto sua madre e i tedeschi li ruppero quasi tutti, fra quelli ancora integri il nonno ne trovò uno con dentro una lettera di sua madre che raccontava cosa succedeva a casa.
Una mattina suonò l’allarme e il nonno e i suoi compagni si buttarono nel buco, ma quella volta quando l’allarme cessò vennero a prenderli gli alleati americani per liberarli. Il nonno è stato prigioniero per due anni e io non riesco a immaginare cosa deve aver passato, mentre mi raccontava di questa cose e che era stato costretto a sparare e uccidere altri uomini gli sono venute le lacrime agli occhi e mi stavo commuovendo anch’io.
Dopo che è stato liberato, il suo viaggio per tornare in Italia è durato circa quattro mesi, viaggiando a piedi o prendendo dei treni per prigionieri che però viaggiavano solo quando non c’erano in giro truppe tedesche.
E’ arrivato a Buckenwald in un paesino diviso da un ponte dove ha preso una tradotta per l’Italia che ha raggiunto in quattro giorni l‘Italia, arrivando a Merano. Da qui con un camion è andato a Bologna dove ha preso una corriera che l'ha lasciato nella Canevaccia, da lì a piedi ha raggiunto Iola e i Felicari, il posto dove viveva la sua famiglia.
E’ arrivato di notte e ha bussato e gridato: ”Sono io, sono io” ma nessuno apriva, poi lo hanno finalmente sentito e gli hanno aperto la porta e lì è cominciata una grande festa per il suo ritorno a casa.
Intervista a mia nonna Natalina Turrini. Testimonianza raccolta da Erika Battistini.
Io ho chiesto a mia nonna Natalina se sapeva qualcosa sulla Seconda guerra mondiale anche se lei è nata dopo, nel 1949, quando la guerra era già finita.
In famiglia però si è sempre parlato della guerra, tanto che lei mi ha detto che, essendo una bimba ed essendo i racconti terribili, avrebbe voluto che non se ne parlasse, ma per anni e anni in casa sua si parlò egualmente di fatti e persone coinvolte in piccoli e grandi eventi.
Gli anni 1944 e 1945 erano chiamati gli anni del fronte (“an de front” in dialetto), perché questa era una zona contesa tra gli americani e i tedeschi, c’era quindi il fronte dove bombardavano con i cannoni.
La notte i familiari di mia nonna non si fidavano di andare a letto, per paura di essere bombardati e andavano a dormire in cantina, sopra i mucchi delle patate che avevano raccolto, perché sisentivano più protetti.
Una notte, la mamma della nonna, Teresa Romagnoli, che dormiva assieme alle sue due bimbe di tre e cinque anni e a suo padre, perché suo marito, il mio bisnonno che si chiamava Leonardo Turrini, era partito per il fronte, ha sentito uno sparo di cannone e la porta della cantina è andata in frantumi. Sono riusciti a ripararsi dalle schegge e sono subito scappati via, ma dalla fretta una delle bimbe ha perso le scarpe. Bisognava scappare in fretta per cui non potevano fermarsi a cercare le scarpe.
La sua mamma allora l’ha presa in braccio ed ha continuato la fuga.
Si sono rifugiati in una casa sotto Monteforte, lì la cucina si trovava sotto terra per cui era più sicura. Dopo alcuni giorni sono sfollati a “Casa Salsiccia”, località che era già stata liberata dagli americani. A quei tempi tante persone facevano da guida a quelli che non conoscevano i posti per farli passare oltre la linea del fronte, dove combattevano e quindi dove non era difficile perdere la vita.
L’ospedale era stato improvvisato in un locale ai “Ferlari” di Materno: i feriti che riuscivano andavano a piedi fin là, quelli più gravi venivano trasportati su una scala di legno a pioli.
Tra i soldati tedeschi a volte se ne trovavano anche di quelli più umani.
Mia nonna ha sempre sentito parlare di un soldato tedesco che diceva di avere nove figli in Germania, ed è stato ucciso proprio a Monteforte, dove abitava la famiglia di mia nonna. E’ stato sepolto proprio lì, sotto un pero, ma poi, finita la guerra, i suoi compaesani sono tornati a prenderlo per riportarlo a casa, dove i suoi cari potevano almeno piangere sulla sua tomba.
Quando sono arrivati gli americani che hanno liberato il paese, è stata una festa per i bambini, ma anche per gli adulti perché hanno portato loro cioccolata, sigarette, caffè, quindi si sono fatti ben volere da tutti.
Il padre di mia nonna è partito nel 1939 ed è tornato a casa nel 1945, è stato a combattere in Grecia, poi è stato fatto prigioniero e portato nei campi di concentramento in Germania.
Fortunatamente si è salvato e da lassù è ritornato a casa a piedi.
Quando è arrivato a casa, quasi non riconosceva il posto dove abitava perché la casa era stata bombardata e non trovava più nemmeno la porta. Una vicina poi gli ha insegnato da dove si poteva entrare, perché solamente la cantina era ancora intatta e la famiglia si era trasferita lì.
Le sue figlie non lo riconoscevano perché una era piccola quando era partito e l’altra era nata dopo la sua partenza per la Grecia.
Quella più grandina addirittura aveva paura perché diceva che era un signore che non conosceva, e piangeva.
Finita la guerra, erano rimasti molti buchi nel terreno, formati dalle bombe che erano scoppiate. I bambini ci andavano a giocare, facendo finta che fossero piscine.
Questo dimostra come i bambini trovano sempre il lato positivo in tutte le cose, pure in una cosa atroce come è stata la guerra.
Intervista ai nonni di Elena Masinelli, Carlo Credi e Giuseppina Bernardoni. Testimonianza raccolta di Elena Masinelli.
Le prime cannonate su Montese ci furono il 14 ottobre 1944, caddero al centro della piazza di Montese senza fare fortunatamente gravi danni.
Nel mese di agosto, mentre i contadini del prete stavano mietendo nei campi vicino al Quiolo, vennero attaccati dagli aerei che buttarono degli spezzoni incendiari, provocando molti morti epersone ustionate gravemente.
In seguito la maggior parte della gente sfollò verso Porretta Terme e Gaggio Montano che erano già stati occupati dai brasiliani. I miei nonni Carlo Credi e Giuseppina Bernardoni e qualche altra famiglia fecero un rifugio sotto il monte che si trovava attaccato alla casa e così, durante i bombardamenti, le persone rimaste si rifugiavano lì.
In questo periodo la gente si nutriva con polenta gialla o di castagne, patate, caldarroste e poco altro.
Venne bombardata e distrutta completamente la scuola senza provocare morti e feriti, invece la casa del professor Morini che si trova vicino alla chiesa parrocchiale, venne distrutta causando tre morti (due donne e una ragazza).
Nella zona vicino alle Coste c’era un gruppo di quattro mitraglie contraeree con proiettili lunghi venti millimetri.
Il nonno Carlo Credi che al tempo aveva tredici anni, avendo sentito sparare in panoramica voleva andare a cercare i bossoli; quando arrivò in cima alla panoramica vide un gruppo di fascisti da una parte e dall’altra don Dallari e un giovane che pregavano insieme. Un militare vide il nonno e lo mandò via, lui dopo pochi passi sentì la scarica dei fucili. Tuttora in panoramica c’è una lapide che ricorda questo giovane che aveva ventuno anni.
Un giorno, mentre la nonna Giuseppina Bernardoni con le sue due cugine, stava giocando nell’orto dietro casa, arrivarono tre aerei militari a quota bassa, loro che non avevano mai visto queste cose cominciarono a salutare tutte contente e felici.
Vennero richiamate e sgridate dalla loro mamma che le fece riparare nel sottoscala. Questi aerei andarono a bombardare al Quiolo.
La famiglia della mia nonna è rimasta nella sua casa, avendo scavato un rifugio in cantina, finchè arrivarono i soldati e li obbligarono ad andare via.
Si trasferirono prima ai Bertocchi, e dopo qualche giorno ai Ferlari di Maserno.
In questo tragitto la bisnonna della nonna Giuseppina che aveva più di ottanta anni venne portata sempre in spalla da un certo Giuseppe detto “Lufana”, grande amico di famiglia.
Dai Ferlari la famiglia di mia nonna ha visto quando hanno incendiato la loro casa, questo è accaduto perché alcuni tedeschi che si erano nascosti nel rifugio, prima avevano alzato bandiera bianca, poi hanno incominciato a sparare, allora gli americani hanno usato un lanciafiamme che ha bruciato tutta la casa.
Il nonno Carlo durante questa guerra ha perso due sorelle di circa diciotto anni.
Morte a causa di mine che si trovavano nel campo di loro proprietà.
Testimonianza di Laura Balestri. Testimonianza raccolta da Oumayma El Karfi.
Mia nonna Balestri Laura, mi ha raccontato che durante la Seconda guerra mondiale i soldati tedeschi occuparono Montese e molti altri paesi della Provincia di Modena che si trovavano lungo la linea del fronte. Lei mi ha raccontato che i soldati tedeschi erano affamati, si trovavano lontano da casa e gli approvvigionamenti non arrivavano con regolarità dalla Germania, così essi rubavano tutto ciò che poteva essere mangiato. I tedeschi erano molto ben armati e spesso entravano nelle case per cercare i partigiani e se ne trovavano qualcuno lo uccidevano o, nella migliore delle ipotesi, lo deportavano in Germania in uno dei famigerati campi di concentramento. Le donne non venivano toccate e non venivano molestate in alcun modo. Gli anziani maschierano gli unici ad essere rimasti nel paese, i giovani erano stati costretti ad arruolarsi o erano partigiani.
Mia nonna ricorda benissimo il giorno in cui un giovanissimo soldato tedesco, dai capelli biondi come il grano in luglio, si presentò a casa sua e chiese un vitello in nome dell'esercito tedesco. Il papà di mia nonna, naturalmente si rifiutò di consegnargli il vitello. Il giovane soldato andò via verso il suo comando; dopo circa un'ora tornò e in un italiano molto approssimativo fece capire al mio bisnonno che se fosse tornato al comando senza il vitello il suo comandante gli aveva giurato che l'avrebbe ucciso. A queste parole il mio bisnonno si mosse a pietà e gli diede il vitellino.
La guerra è fatta da giovani sia dell'una che dell'altra parte e quando muore un giovane non si grida mai vittoria perchè è una parte del futuro di tutto il genere umano che viene uccisa.
LA TESTIMONIANZA DELLO ZIO LUCA MAZZETTI. Testimonianza raccolta da Cecilia Passini.
La Seconda guerra mondiale ebbe fine tra l’inverno del 1944 e la primavera del 1945 e Montese con tutti i suoi territori confinanti, fu l’ultima linea di difesa della Germania prima di abbandonare l’ Italia e il versante bolognese. Vergato era già stato liberato dall’esercito alleato, mentre Montese, Zocca, Pavullo nel Frignano, erano ancora occupati dall’esercito tedesco. Le popolazioni che vivevano nella parte occupata spesso cercavano di attraversare il fronte per recarsi nelle zone liberate.
Raccontava un certo signor Baldini Amadio che dopo l’8 settembre, quando l’ Italia firmò la resa e la fine delle ostilità, come tanti altri egli scappò dall’esercito per tornare alla propria casa; si nascose, per non essere catturato ed essere deportato nei campi di prigionia. Quindi una mattina d’inverno, molto presto, quando ancora era buio, si incamminò per attraversare il fronte, riuscendo ad evitare i militari tedeschi: raggiunse la località Abetaia di Gaggio Montano, e, quando pensava ormai di essere libero, all’improvviso da dietro una siepe un militare brasiliano nero gli intimò l’altolà. Non avendo mai visto un uomo di colore rimase fortemente impressionato, spaventandosi tantissimo rimase per un attimo indeciso se cercare la fuga e rischiare di essere ucciso, arrendersi o andare verso di lui. Il buon senso prevalse e si arrese, dopo un breve interrogatorio lo liberarono e lui ebbe modo di apprezzare la bontà di quelle persone diverse di colore e temute, ma buone d’ animo e giuste.
LA TESTIMONIANZA DEL NONNO FRANCESCO PASSINI. Testimonianza raccolta da Cecilia Passini.
L’ inverno 1944 e 1945 Montese era territorio di fronte attivo, con tutti i soldati sempre in giro: quello fu un inverno abbastanza duro, perché la popolazione non ebbe l’occasione di potersi muovere con libertà. Nella zona di guerra la gente doveva stare nascosta dai bombardamenti e dalle rappresaglie dei tedeschi e dai vari movimenti militari, le conseguenze di tutto il conflitto furono atroci e di quello che era accaduto ognuno ne avrebbe conservato per sempre il ricordo. Arrivò la primavera con la liberazione di tutto il territorio e la popolazione, finalmente potè riprendere, anche se con grande fatica fisica e d’ animo, la sua vita.
Testimonianza di Irma Bellisi. Testimonianza raccolta da Sara Biagini.
Durante il periodo di guerra si mangiava ciò che si riusciva a trovare nei campi e si mangiava tutto crudo perché accendere il fuoco era molto pericoloso, soprattutto di notte quando esso era più facilmente visibile. Gli aerei spia chiamati “ cicogna “, se vedevano uscire del fumo dai camini, avvisavano i bombardieri che subito venivano a bombardare quel luogo pensando che proprio lì si annidassero dei partigiani. I tedeschi volevano cacciare tutti gli abitanti di Montese via dalle proprie case: la mia nonna, sua madre e le altre sue sorelle furono sfollate e costrette a trasferirsi nei paesi vicini. Durante quegli anni di guerra la mia nonna mi racconta che ci fu un bombardamento, uno dei tanti, ma lei lo ricorda in particolar modo perché un aereo tedesco cadde proprio vicino casa sua e il pilota che ne uscì fuori era una torcia umana, in breve tempo cadde a terra morto, totalmente carbonizzato.
Intervista al nonno Raffaele Cioni. Testimonianza raccolta da Sara Biagini.
Alla Tabina, una domenica mattina, all’uscita dalla messa io e gli altri componenti della mia famiglia stavamo facendo colazione dopo essere stati alla Santa Messa, all’improvviso sulla porta di casa sono comparsi dei soldati tedeschi i quali, senza disturbarsi a chiedere il permesso, hanno iniziato ad installare a casa nostra una postazione radio per poter comunicare con i soldati che si trovavano sul fronte di combattimento.
Dopo pochi giorni nei dintorni di casa nostra sono iniziati bombardamenti molto serrati in quanto avevano scoperto che alla Tabina c’era una base tedesca e gli alleati volevano distruggerla per impedire il collegamento con il resto del fronte. Mio padre, insieme ad altri uomini, aveva scavato, nella cantina di una casa vicina, un’ enorme galleria dove tante persone andavano a nascondersi quando veniva dato l’ allarme di un bombardamento aereo.
Mi ricordo che nella galleria veniva sempre un vecchietto che si chiamava Eugenio, il cognome non lo ricordo, o forse non l’ho mai saputo, il quale per ripararsi dal freddo indossava l’uno sopra l’ altro sette berretti. Quando uscivamo dal rifugio eravamo tutti pieni di pidocchi e bisognava correre al torrente per lavarsi. Finita la guerra nell’ aia della nostra casa era rimasto un carro armato leggero, mio padre l’ aveva svuotato di tutti i pezzi che potessero avere qualche utilità e ne aveva ricavato una gabbia atipica dove mettere le tortore.
Intervista a nonna Elvira Credi. Testimonianza raccolta da Sara Biagini.
Io in quei tempi avevo tre anni, i miei ricordi più che di fatti vissuti si rifanno a fatti raccontati tantissime volte in mia presenza dai miei genitori. Noi abitavamo alla Capanna, che si trovava proprio sulla linea Gotica, ovvero la linea di confine costruita dai tedeschi per impedire che gli alleati raggiungessero la Pianura Padana. Gli americani ed i brasiliani portavano a me e a tantissimi altri bambini barattoli di cioccolato con le nocciole e le gomme da masticare.
A casa Iacchino, a pochi metri dalla nostra casa, c’era la mensa dei tedeschi, dove preparavano da mangiare a tutti i soldati, invece in casa nostra si era stabilito un soldato tedesco che faceva il calzolaio e cuciva le selle dei cavalli.
Un giorno i tedeschi pensando che a casa nostra ci fossero nascosti dei partigiani misero tutte le persone con la schiena al muro con i mitra puntati verso di loro minacciando di ucciderli se non avessero rivelato dov’erano nascosti i partigiani.
Un altro giorno dei tedeschi vennero a casa nostra per cercare mio padre, volevano portarlo nei campi di concentramento, mia madre disse loro che era morto, ucciso dai loro commilitoni, essi se ne andarono e il mio papà potè uscire da dove s’era nascosto.
Le testimonianze sono state selezionate e tratte dal libro "Montese 1943-1945". Edito dal Gruppo Culturale Il Trebbo.
Nella comune di Montese morirono 225 persone per eventi bellici e 43 militari caddero o furono dichiarati dispersi nel periodo della seconda guerra mondiale.