Il mio nome è Cruz Rios. Sono nato a Colton in California il 15 dicembre 1918. Dopo il 1945 sono stato in Italia sei volte, di cui la prima è stata memorabile. Nel gennaio del 1945 facevo parte del 87° Reggimento della 10ª Divisione da montagna. Eravamo stati mandati in Italia per aiutare a fermare, mettere fine alla tirannia e alle distruzioni causate dall’esercito tedesco.
Questa è la mia storia che ho raccontato a mio figlio Val. Ora vorrei raccontarla a tutti coloro che desiderano capire.
Verso la fine di giugno del 1944, la 10ª Divisione si trasferì da Camp Hale in Colorado, a Camp Swift in Texas, per completare l’addestramento. Nel novembre del 1944 fu assegnato alla nostra divisione un nuovo comandante, il generale George Hays. Avevamo già sentito parlare della sua determinazione e sapevamo che, nella prima guerra mondiale, era stato insignito della Medaglia d’Onore del Congresso. Pensammo che il comando di divisione ci aveva finalmente assegnato il generale che ci avrebbe portato sul campo di battaglia. Non sapevamo dove sarebbe stato e si discuteva sulla possibile nostra destinazione in Europa, dove il generale era stato poco tempo prima.
All’approssimarsi del periodo natalizio ci fu concessa una licenza e andai a trovare i miei familiari. Dissi loro che presto sarei partito per qualche destinazione ignota oltremare e probabilmente non li avrei visti per un po’ di tempo.
Continuammo l'addestramento fino a quando, in prossimità del Natale, ricevemmo l’ordine di raccogliere tutte le nostre cose e fare i bagagli. Fummo caricati sui treni diretti a sud degli Stati Uniti verso Norfolk, in Virginia. Norfolk è una città portuale dove restammo per circa due o tre giorni. Speravo di ottenere un permesso per andare a Washington DC, che stava proprio a due passi. Nessuno di noi però ottenne permessi e non eravamo autorizzati ad allontanarci dal campo, tantomeno a rivelare la divisione d’appartenenza. C'imbarcammo sulla nave West Point, una delle più veloci dell’epoca. Originariamente chiamata USS America, durante la guerra fu riverniciata con i colori bellici e prese il nome di USS West Point. Due reggimenti furono imbarcati sulla nave. Io appartenevo al 87° Reggimento e l'altro mi sembra fosse l'85°. Dopo qualche giorno di viaggio in mare ci fu rivelata la nostra destinazione: l'Italia. Ecco quando te lo dicono! Quando sei lì solo con i compagni e non puoi comunicare con nessuno, se non con loro che sono nella tua stessa situazione.
Una cosa che ricordo durante il viaggio a bordo della nave è la pizza. Fu la prima volta che la assaggiai. Quando mi chiesero “Vuoi della pizza?”, nemmeno sapevo cosa fosse, ma risposi “Sì”. Da allora, da quel primo assaggio, ne vado matto! Sulla nave eravamo stipati e trascorrevamo il nostro tempo leggendo, giocando a dadi o a carte, guardando fuori e parlando.
Durante il viaggio conobbi vari commilitoni e di uno conservo un ricordo particolare. Si chiamava Louie Ordaz e penso venisse da Hanford o Tulare. Una sera sulla nave, verso le sei o sette, si chiacchierava e ad un certo punto mi disse “Sai Cruz, ho la sensazione di non farcela. Non so se tornerò mai a casa". Io ero convinto che gliel’avrei fatta, ma allo stesso tempo ero preparato ad accettare la possibilità ... di non tornare. Pensavo, “sì, ce la farò”. Ma non sei mai sicuro che ce la farai veramente. Solo, ti ripeti “sì, ce la farai". Nel profondo dei tuoi pensieri sai che tutto può succedere. Così pensai “Io tornerò a casa”, e dissi a Louie “Andrà tutto bene Louie”. Eravamo nello stesso Reggimento e battaglione ma in due compagnie diverse e in mezzo a tanti uomini non avevamo troppe occasioni per incontrarci perciò da quella sera non lo rividi più tanto spesso. Seppi in seguito che Louie fu ucciso dall'artiglieria tedesca durante il primo assalto a Monte Belvedere. Louie fu ucciso in terra italiana, ma non penso sia sepolto in Italia bensì in patria. Quando sono venuto in Italia con i reduci della divisione, ho cercato invano il suo nome. Molti dei nostri caduti furono rimandati in patria e probabilmente fu sepolto vicino a Hanford o a Tulare ma comunque in patria. Incontriamo continuamente tante persone e quando sei giovane, puoi giustamente pensare “Non è ancora la mia ora”. Quando perdi un amico ti dispiace o può lasciarti indifferente, ma oggi non è come allora, ora mi sento diverso. Adesso penso alla quantità di giovani vite perse.
Il nostro viaggio per mare durò nove giorni e sbarcammo a Napoli il 13 gennaio. Ho ancora davanti agli occhi la Rocca di Gibilterra in lontananza sul mare, l’Africa su un lato della nave e sull’altro la Spagna. Qualche giorno dopo l’attraversamento dello stretto di Gibilterra giungemmo all’altezza dell’isola di Capri. Benché da lontano, fu molto emozionante per me vedere quei bellissimi posti. Così attraccammo a Napoli. Una baia stupefacente, di un meraviglioso blu. Da lontano intravedevo il Vesuvio. Avevo letto dell’impero Romano e del Vesuvio, delle sue eruzioni prima della nascita di Cristo. All’attracco al porto di Napoli c’era già un treno ad aspettarci: appena scesi dalla nave marciammo direttamente verso i vagoni merci e partimmo, la notte stessa, in direzione nord. Il viaggio durò circa due giorni. Ricordo che mi chiedevo come ci saremmo difesi dagli aerei tedeschi che avrebbero potuto passare raso terra e scaricare le loro mitragliatrici su di noi. Riuscivamo evidentemente a tenere sotto controllo la situazione aerea perché nessun aereo tedesco ci sorvolò. La guerra stava ormai volgendo al termine e si vedevano pochi aerei tedeschi in cielo. Non ricordo esattamente in quanti eravamo in un vagone: ero talmente attratto dal paesaggio che per quasi tutto il viaggio ho guardato fuori. Vedevo una terra devastata dai bombardamenti, soprattutto lungo le ferrovie e nelle zone adibite al trasporto. Le zone del sud erano state teatro di combattimenti prima del nostro arrivo. Facemmo una sosta a Roma di un’ora soltanto, per poi proseguire il viaggio. Conservo ancora una foto scattata davanti alla stazione dei treni. Non so se risale proprio a quel mese, ma è in ogni caso una foto di Roma.
Una cosa mi è rimasta impressa: ogni volta che facevamo una sosta, ci ritrovavamo circondati da gruppi di bambini che chiedevano cibo o qualsiasi altra cosa potessero avere da noi. Eravamo dispiaciuti e noi davamo loro tutto ciò che potevamo. Cibo soprattutto, per placare la fame di quei bimbi che probabilmente si ritrovavano senza una casa. Ognuno di noi fece il possibile per loro e offrimmo tutto ciò che avevamo, anche se non era molto.
Arrivammo fino a Livorno dove, scesi dal treno, ci portarono con dei camion in un'area d'attesa vicino a Pisa che ci dissero essere stata l’antica tenuta di caccia del Re. Era gennaio e il terreno era completamente ricoperto di neve. Montammo le nostre tende e bivaccammo là per qualche giorno che trascorremmo tra marce ed esercitazioni. Poi, verso la metà di gennaio, fummo trasferiti al settore “Quiet”, prima nei pressi di Villa Colli poi nell’area di S. Marcello Pistoiese, in attesa di spostarci sulla linea del fronte per l’attacco a Monte Belvedere.
Val: “Siete riusciti a parlare con qualche abitante?”
“No, assolutamente no. Non ne avevamo l’occasione, non facevamo altro che marciare e inoltre ci era stato proibito rivelare ad alcuno la nostra identità. I tedeschi però lo sapevano, non so come ma sapevano chi eravamo”.
Val: “Che tipo di mezzi di trasporto utilizzavate?”
Ci spostavamo su camion dell’esercito. Solo più tardi, in prossimità delle linee del fronte, ci spostavamo a piedi per non farci vedere dagli osservatori tedeschi e in ogni caso solo durante la notte, di giorno era troppo rischioso.
Raggiungemmo la linea del fronte nell’area di Monte Belvedere verso la fine di gennaio e durante le prime settimane non successe nulla. Alcuni di quei giorni li passavamo esclusivamente di pattuglia. Saggiavamo le difese delle linee tedesche e loro facevano la stessa cosa. Ogni tanto il tutto sfociava in qualche sparatoria. Le perlustrazioni erano fatte da squadre di circa dieci soldati alla volta che andavano in cerca dei tedeschi per studiare la loro prossima mossa. Penso che questo servisse a tenere in allerta sia noi sia i tedeschi.
Val: “Che ruolo avevi e quali erano le tue mansioni all'interno della Compagnia K?”
Per questo dobbiamo tornare un po’ indietro al mio primo incontro con la Compagnia K. Dopo aver completato l’addestramento di base a Camp Roberts, l’87° Reggimento fu trasferito, verso la metà di giugno del 1943, a Fort Ord dove rimanemmo per circa due settimane. Allora non conoscevamo il motivo del nostro trasferimento. Nell’esercito semplicemente sei spedito da qualche parte e non sai dove fino a quando ci arrivi. Ricordo che un giorno mi chiesero “Dove vuoi andare? Non voglio sapere in che Compagnia, dimmi se vuoi maneggiare un fucile, essere un artigliere o un mitragliere all’interno del plotone armi”. Io risposi che sceglievo i mortai e fui destinato, senza lasciarmi possibilità di scelta, alla Compagnia K. Conoscevo bene i mortai, con cui avevo avuto a che fare durante l’addestramento. Ero stato addestrato anche con le mitragliatrici ma scelsi i mortai. Questo è stato il mio ingresso nella Compagnia K. Tra l’altro l’87° Reggimento era costituito in maggioranza da soldati volontari, nella maggior parte uomini istruiti. Molti di loro provenivano dalla Ivy league schools, altri dalla zona orientale del paese, pochi da ovest. Mi chiesi: “Cosa ci faccio io qui?”. Voglio dire, quelle persone erano tutte simili tra loro, così ancora oggi, quando mi chiedono come mai sono finito nell’87° Reggimento, rispondo che probabilmente mi hanno messo là perché avevano bisogno di uomini.
Val: “Che tipo di equipaggiamento personale trasportavate?”
Normalmente nello zaino tenevamo il cibo e alcune razioni K che bastavano per un pasto. Contenevano cioccolata, un po’ di crackers e carne in scatola. Quanto eravamo stufi della carne in scatola! Eravamo anche muniti di una coperta leggera, una piccola tenda e, in cintura, una zappa, un badile e una borraccia. In più ognuno di noi portava o un fucile o parti di un mortaio o qualsiasi altro tipo di equipaggiamento in uso. Io solitamente trasportavo sia la base sia la canna del mortaio. In determinati luoghi di combattimento mi davano anche una piccola carabina. È chiamata carabina perché è più piccola di un fucile di fanteria e serve solo per la difesa personale, non per gli scontri a fuoco. Normalmente avevo una pistola, con la quale probabilmente neanche uccidevi un uccello, ma la portai con me durante tutto il periodo in Italia. Questo era tutto quello che portavamo nello zaino, che ci serviva per le nostre notti e in ogni luogo. Forse a questo si aggiungeva qualche altro oggetto ma di minor importanza. A volte avevamo anche delle calze di ricambio, molto importanti perché se sudavi andavano cambiate spesso.
Il piano d’attacco a Monte Belvedere ci fu comunicato soltanto qualche giorno prima. I primi a saperlo furono i sergenti e gli ufficiali. Secondo i piani, nella notte tra il 18 e 19 febbraio 1945 era prevista la conquista dei Monti della Riva, che si trovavano alla nostra sinistra. La scelta di questo obiettivo dipendeva dal fatto che i tedeschi avevano su quei monti una postazione d'osservazione. Dovevamo eliminarla per evitare che potessero dirigere il fuoco dell’artiglieria sui soldati che sarebbero arrivati durante il giorno o la sera seguenti. L’assalto fu concluso con successo dal 1° battaglione dell’86° Reggimento. Il 19 febbraio l’85° Reggimento era al centro dello schieramento sotto le pendici di Monte Belvedere, mentre gli altri due battaglioni dell’86° Reggimento si trovavano lontano sulla destra. Due battaglioni dell’87° Reggimento salirono prima a Vidiciatico e Lizzano in Belvedere e in seguito, verso le sette di sera, lasciarono le camere libere al nostro battaglione. Io appartenevo al 3° battaglione dell'87° Reggimento e arrivammo dopo gli altri due, che si trovavano in procinto di attaccare le difese tedesche di Monte Belvedere, nella notte tra il 19 e 20 febbraio. Ricordo quando arrivammo a Vidiciatico. Questo nome mi è rimasto impresso perché ho sentito soltanto i suoni del combattimento durante tutta quella notte. La linea di partenza per l’attacco era vicina al piccolo paese di Querciola.
Quando oltrepassi la linea di partenza, il tempo si ferma, lo sai. Tornando indietro con il pensiero, alle 23 di quella sera ci annunciarono che il battaglione dell’86° Reggimento aveva preso i Monti della Riva. Eravamo molto sollevati, soprattutto perché era andato tutto liscio, e non avevano subito troppe perdite. I tedeschi furono attaccati di sorpresa, probabilmente mentre dormivano. Suppongo che non si aspettassero un attacco di notte; attaccare di giorno dopo il fuoco di preparazione dell’artiglieria era cosa più comune. Immagino la quantità di morti che avremmo avuto attaccando di giorno.
Sulla linea di partenza a Querciola erano posizionati due battaglioni dell’87° Reggimento ed entrambi avrebbero attaccato verso il paese di Corona. Uno avrebbe proseguito verso sinistra per liberare la zona verso i paesi di Polla e Rocca Corneta. L’altro battaglione, dopo avere superato Corona, sarebbe salito lungo il crinale ovest verso la cima del Monte Belvedere, che era l’obbiettivo anche dell’85° Reggimento, sulla nostra destra. Entrambi i reggimenti subirono un pesante fuoco di mortai e mitragliatrici ed ebbero molte perdite a causa delle mine e trappole lungo il percorso che non era stato sminato perfettamente. Si pensava che anche la strada fosse stata liberata dalle mine; ci si accorse del contrario, e solo il giorno seguente quando camion e carri armati saltarono in aria. La guerra, in ogni caso, andava avanti e noi proseguimmo il nostro cammino fino alla conquista del monte. La mattina dopo il Monte Belvedere, Corona e tutta la zona circostante erano stati conquistati. Il 3° battaglione dell’87° Reggimento, il nostro, si trovava in riserva a Vidiciatico.
Circa a mezzogiorno del 19 febbraio ci fu comunicato che saremmo andati a rilevare i nostri a Corona. Mi sembra si trattasse della Compagnia B, che, una volta conquistata Corona, stava risalendo il Monte Belvedere. C’era ancora qualche cecchino tedesco in giro da quelle parti e bisognava eliminarli. Alle due del pomeriggio partimmo per Corona. Vi erano numerosi scoppi di proiettili d’artiglieria e alcuni caddero molto vicini a noi. Arrivati a Corona scegliemmo i nostri appostamenti e nel pomeriggio posizionammo i nostri mortai, ma per un bel po’ di tempo non successe nulla. La nostra Compagnia era dispiegata nelle trincee da Corona in giù verso sinistra.
Nel frattempo cercammo di assicurarci la presenza di carri armati e altro equipaggiamento pesante poiché eravamo quasi certi di un contrattacco tedesco la mattina seguente.
In una trincea solitamente trovavano posto due uomini. Di notte uno possibilmente dormiva e l’altro possibilmente vegliava. Credo però che nessuno di noi riuscì a prendere sonno quella prima notte. In quella occasione eravamo in tre in una trincea e uno dei miei compagni era sposato con due figli; veniva dalle montagne del Tennessee o da quelle parti. Ricordo che quando l’artiglieria tedesca iniziava a sparare e i proiettili cominciavano a piovere sulle nostre trincee, lui iniziava a tremare e non smetteva più. Non riusciva a controllarsi e mi rendeva nervoso. Avrei preferito un altro compagno che fosse anch’egli un assistente artigliere come Coleman che veniva dallo Iowa. Lo considero ancora oggi il mio compagno di trincea perché combattemmo insieme per tutta la guerra, da Kiska all’Italia. Era perfetto, non era sposato e poteva reggere la situazione.
Ripensando a quel periodo mi viene in mente quando, arrivati a Pisa, uno dei compagni dovette essere rispedito negli Stati Uniti a causa dall’insonnia. Era crollato psicologicamente e quasi certamente fu congedato. In ogni modo anche noi soffrivamo d’insonnia. A volte, solo pensare alla guerra, può ucciderti prima della guerra stessa. Cercammo in tutti i modi di dormire quella notte ma invano. Il mattino dopo ci aspettavamo un contrattacco da parte dei tedeschi su tutta la linea, verso la cima e lungo entrambi i lati del monte. La difesa era ben piazzata con mitragliatrici, mortai e soldati ben addestrati.
Quella notte del 20 febbraio, il nostro comandante di Reggimento, il colonnello David Fowler, ordinò di controllare che ogni cosa fosse a posto, come diceva lui … "abbottonata". Dovevamo essere pronti per il contrattacco tedesco del giorno seguente. Gli ordini furono eseguiti da un maggiore del nostro battaglione, il quale uscì a fare un controllo generale. In precedenza era stato ordinato di sparare e uccidere qualsiasi cosa si muovesse. Per questo egli fu ucciso, dalle nostre stesse truppe. Un maggiore yeah!
A Corona avevo piazzato il mortaio in una trincea piuttosto grande perché ci fosse sufficiente spazio anche per l’artigliere Fred Palmer, che veniva dal Maine. Io caricavo il mortaio e Fred mirava il bersaglio. Attendeva ordini telefonici dal sergente, appostato poche decine di metri più avanti, che teneva l’azione sotto controllo. Il sergente comunicava a Fred la distanza e noi sparavamo un colpo perché lui potesse vedere il punto d’impatto. Quindi il sergente ci diceva se era troppo corto o troppo lungo, troppo a destra o a sinistra. I colpi troppo corti avrebbero potuto uccidere i nostri stessi uomini. Volevamo assicurarci di coprire tutti i punti, del terreno circostante, non in vista del tiro delle nostre mitragliatrici. Fred regolava la mira in base alle indicazioni del sergente e sparava un altro colpo. Se questo andava a segno eravamo “Let go”. Cercavamo di trovare una buona posizione per il mortaio sin dall’inizio in modo da non doverci poi spostare durante la battaglia. Il mortaio è un’arma molto semplice. È costituito da una canna con uno spillo sul fondo. Si inserisce il proiettile da mortaio, il quale, una volta colpito lo spillo sul fondo, è espulso verso l’alto dalla carica di lancio, producendo una sorta di sordo ‘pop’.
Ora vi spiego come mi sentivo quando i tedeschi cominciarono il contrattacco. Sono stato cresciuto con il senso del rispetto per la vita. Una volta arruolato, però, dopo che mi sono stati consegnati fucile e baionetta, ho deciso che avrei fatto di tutto per difendermi. Mi dicevo “O io o lui”. Ecco cosa provavo. E così non mi facevo scrupoli. Uccidere qualcuno a sangue freddo è una cosa, ma quando ti trovi in combattimento la storia è diversa. Sei là per far il tuo dovere. Che tu abbia paura o meno, lo fai e basta. Il momento prima dell’attacco è molto duro da affrontare, perché cominci a chiederti “Ce la farò?”. Una volta che ci sei dentro vai avanti, fai il tuo dovere e non pensi più a nulla. Semplicemente fai il lavoro per cui sei stato addestrato e pensi a difendere te stesso, non c’è più tempo per altro. Credo che tutti i soldati si sentano così. Penso che nessuno di loro lo faccia per odio ma è tuo dovere farlo. Io mettevo tutto in fondo alla mia mente, cercavo di non pensarci. Rispetto tutti quelli che reagiscono in modo diverso ma è così che mi sentivo.
I contrattacchi tedeschi non durarono troppo a lungo. A volte si trattava di un’intera Compagnia, altre volte di una ventina di uomini o addirittura di una squadra di soli nove uomini. I poveri tedeschi non avevano possibilità di scampo. A pensarci bene ora, non potevano resistere al nostro fuoco, anche se alle volte eravamo nella stessa situazione quando attaccavamo le loro difese. Il nostro morale era alto, mentre per i tedeschi, in quel momento, penso fosse piuttosto basso. Comunque fecero il loro lavoro. I loro armamenti erano magnifici, qualche volta ho pensato che fossero migliori dei nostri. I tedeschi erano motivati ed erano pericolosi, molto pericolosi e quindi sparavi a tutto quello che avevi davanti e speravi per il meglio. Alcuni tedeschi furono uccisi, altri feriti.
Terminato un contrattacco tedesco, alle volte uscivamo allo scoperto ad esaminare la situazione. Da altre compagnie si affermava che, a volte, i tedeschi alzavano la bandiera con la croce rossa e andavano a recuperare i propri compagni caduti o feriti sul campo. Io non ho mai assistito a questa scena. Sovente i corpi rimanevano sul terreno a putrefarsi. Questo è il destino degli uomini che vanno in guerra. Dovevi controllare le tue emozioni. Vedevo tutto ciò ed ero dispiaciuto per loro ma se ci fossimo ritrovati nella stessa situazione, gli avremmo sparato un’altra volta. Questa è la guerra. Nelle squadre fucilieri ci furono brutte esperienze con alcuni tedeschi che, con dei fucili mitragliatori nascosti, parevano arrendersi. Avanzavano con le mani in alto e poi si buttavano a terra e sparavano contro chi pensava di prenderli semplicemente prigionieri. Divenne molto pericoloso e dopo quegli episodi non volevano più prenderne. Alcuni uomini diventarono insensibili. Probabilmente, pensai, avevano perso la loro coscienza. Uccidevano e basta, anche chi si arrendeva. Ho letto storie simili in Vietnam e ora capisco perché. Nel vivo di una battaglia non riesci a pensare lucidamente.
Dopo tre o quattro giorni passati nelle trincee e dopo che erano terminati i contrattacchi tedeschi, a Corona subentrò la Forza di spedizione Brasiliana insieme ad elementi della 92ª Divisione che era composta da Afro-Americani. Alcune compagnie del nostro battaglione rimasero a Corona, mentre altre arretrarono nelle immediate retrovie a Vidiciatico e soltanto alcune a Lizzano in Belvedere. A Vidiciatico mi riposai e ripulii per bene. La linea del fronte si stava stabilizzando e non c’erano più molti combattimenti. Naturalmente c’erano sempre proiettili d’artiglieria che ogni tanto capitavano da quelle parti ma sicuramente molto meno numeroso rispetto a prima. Un Reggimento alla volta si prese un periodo di riposo nelle retrovie vicino a Montecatini Terme o Lucca, da dove si poteva andare a visitare Pisa o Firenze.
Val: “Che cosa successe tra la prima e la seconda offensiva?”
Non passò troppo tempo tra la prima e la seconda offensiva, circa una settimana. Preso Monte Belvedere e ritornati nelle retrovie, dove prendemmo un breve periodo di riposo, ci sentivamo pronti per la seconda offensiva che scattò in marzo. Allora mi chiesi perché non avessimo proseguito prima. Avevamo sfondato le linee tedesche ma lasciammo loro il tempo di riorganizzare le loro linee di difesa. Penso che nell’esercito funzioni così e questo è il loro modo di lavorare. Probabilmente il motivo principale fu la preparazione per l’offensiva di primavera che scattò in aprile.
Mi sembra fosse il 2 o il 3 di marzo quando iniziò la seconda offensiva. La seconda offensiva era la destinazione principale e l'obiettivo più importante della divisione. Quella volta fu il nostro battaglione a dover sferrare il primo attacco, poiché durante quello al Monte Belvedere eravamo rimasti in riserva. Lo scopo era liberare le aree sul il lato opposto del monte, verso il Malandrone, Cimon della Piella che si trovava tra il Monte Terminale, nel territorio di Iola di Montese, e Pietracolora. Quella zona era diventata linea del fronte dopo che la cima del Monte Belvedere fu conquistata dalle nostre truppe. Ancora una volta fu scelto il nostro battaglione per attaccare: l’85° Reggimento si trovava alla nostra sinistra, l’86° Reggimento a destra e l’87° Reggimento era al centro dello schieramento. C’era una piccola strada, sul lato destro del Monte Belvedere, che passava in una piccola valle, se così si può chiamare. La località era chiamata Malandrone e ci dissero che era un piccolo burrone con un fiumiciattolo che vi scorreva dentro. Realisticamente a me parve un burrone dove scorreva un torrente dove ci fermammo quella sera. Il ponte che portava dall’altra parte era stato distrutto, i carri armati non erano in grado di proseguire e i genieri stavano cercando di costruire un ponte che i tedeschi continuavano a buttare giù a colpi di artiglieria. Ci fermammo lì quella notte.
C’erano anche i Brasiliani e mi ricordo che quella notte dovevano essere veramente felici perché, dalle loro postazioni, facevano un grande baccano. Pensai che quei ragazzi non erano stati addestrati a dovere, erano venuti lì come se passassero da una festa all’altra. Facevano tutti i tipi di rumori. I tedeschi li avrebbero prima o poi sentiti. Noi eravamo molto silenziosi. Il tramonto stava per lasciare spazio al buio e riuscivo a vedere il delinearsi dell’artiglieria pronta ad entrare in azione. Tutto era pronto per la battaglia. Secondo il piano il primo a prendere posizione doveva essere il nostro battaglione, mentre gli altri due sarebbero andati all’attacco passando attraverso le nostre linee. Le cose, tuttavia, andarono diversamente. L’attacco fu posticipato di tre giorni che furono una vera batosta per noi tutti! L’artiglieria tedesca sparò continuamente ogni giorno per tre giorni consecutivi. Era un fuoco veramente intenso e perdemmo diversi uomini. Ero dispiaciuto per coloro che erano obbligati a uscire dai loro ripari per pattugliare le linee o portare messaggi. Alcuni di noi erano costretti ad evacuare le trincee per evitare colpi diretti dell’artiglieria e dei mortai. Fu un vero inferno per gli uomini del 3° battaglione, un vero e proprio inferno! Non so quanti uomini morirono e tanti rimasero feriti.
In quella zona il territorio era fatto di montagnole o colline, grandi e piccole. Le case erano fatte di roccia e gesso, erano come piccole fortezze dietro alle quali i tedeschi si appostavano. Combattevano dentro e dietro ad esse e quando le attaccavamo ricevevamo un forte fuoco di difesa. Chiedevamo il supporto dell’artiglieria che, a volte, non era efficace per cui dovevamo uscire allo scoperto con mitragliatrici, fucili per sbarazzarci del nemico e ucciderlo. A volte eravamo costretti a rintanarci nelle nostre trincee. Ci appostammo con mitragliatrici e mortai sotto un crinale sul lato destro del Malandrone. Prima dell’appostamento il nostro sergente ci disse: “È meglio che tu e Fred vi separiate perché qualsiasi cosa succeda non voglio perdere tutti e due i miei artiglieri”. Era una decisione giusta. Fred era capo artigliere poiché era in servizio da più tempo; ci eravamo incontrati a Fort Ord. Nella sua trincea fu affiancato da un altro compagno di origine polacca. Prese il mio posto per caricare il mortaio. I tedeschi cominciarono a sparare con i loro mortai e un colpo cadde vicino alla loro trincea. Fred fu ucciso e il suo compagno, Pinkie, rimase ferito gravemente così come il sergente della squadra mortai fu ferito. Furono portati in ospedale, dove rimasero fino alla fine della guerra. Così divenni sergente di nome ma non di fatto. Non ricevetti alcun grado ma semplicemente guidai la squadra fino a guerra terminata. C’era una casa a pochi metri dalla mia trincea. Quanti saranno stati? 14? Sicuramente meno di 18. Diciamo 15 metri. L’artiglieria tedesca continuava a sparare e se quei proiettili ti colpiscono, ti uccidono o ti feriscono spaventosamente, non c’è scampo. I pezzi di metallo dei proiettili shrapnel ti arrivano addosso spinti da una forza spaventosa. Un altro compagno alla mitragliatrice fu colpito. Ricordo il tutto come se fosse ora. Poi un carro armato avanzò e cominciò a sparare all'edificio. Così avemmo la meglio e potemmo avanzare fino ad oltrepassare il Malandrone e dirigerci verso est, per andare a liberare alcune zone ancora occupate dal nemico. L’85° Reggimento ci avrebbe seguito alla nostra destra per poi attaccare un altro monte ... Cimon della Piella davanti a noi, poi dietro un altro ancora …. Tanti monti uno dopo l’altro il cui nome non ricordo più.
Il prossimo obiettivo era Pietracolora. Presa Pietracolora ci saremmo diretti a sinistra verso il Monte della Croce. Monte della Croce ……il mio nome ‘Cruz’, in Italiano, significa croce. Ovviamente le cose non andarono secondo i piani. L’85° Reggimento era alla nostra destra e avrebbe dovuto avanzare, mentre l’86° era alla nostra sinistra. Il 1° Battaglione del nostro Reggimento subentrò a noi e guidò l’attacco con obiettivo Castel d’Aiano e Monte della Spe, in modo da creare un saliente nelle linee tedesche. Avendo guidato l’attacco precedente ora noi ci trovavamo in riserva, al riparo dai combattimenti in prima linea. Furono altri battaglioni, questa volta, a combattere.
Castel d’Aiano fu presa tra la seconda e la terza offensiva. Rimasi per tre o quattro giorni a Castel d’Aiano, sulla linea del fronte, di sentinella per prevenire eventuali incursioni tedesche nelle nostre linee di difesa. Mi ricordo bene di quei giorni. Avevo una cartolina di Castel d’Aiano che mi ero procurato. Peccato, era un paese molto bello, prima di essere completamente distrutto. Della chiesa e del campanile era rimasto ben poco, erano un ammasso di macerie. Castel d’Aiano ha subito sia il fuoco di artiglieria dei tedeschi che quello di noi americani.
L’offensiva di primavera. Di fronte a Castel d’Aiano, sulla destra, c’era Monte della Spe e, ancora oltre, una piccola valle che era dominata dal paese di Roffeno sul lato opposto. Non era una vera e propria valle, era piccola e stretta. Sostanzialmente circondata da montagne, una dopo l’altra, disposte in direzione est. La 10ª Divisione da montagna doveva attaccare i monti sull’altro lato, a sinistra, della valle. La 1ª Divisione corazzata si trovava all’estrema destra rispetto a noi e doveva prendere la statale 64, la più importante arteria stradale della zona. L’85° Reggimento era alla nostra sinistra e l’86° immediatamente alla nostra destra. Secondo i piani l’offensiva doveva cominciare il giorno 12 aprile ma, per una ragione o per l’altra, fu posticipata. Il 13 di aprile, se ricordo bene, fu comunicato che il presidente Roosevelt era morto. In quel momento non ci importava molto perché neanche noi eravamo certi di essere ancora vivi il giorno dopo.
L’offensiva ebbe inizio la mattina del giorno 14 con un bombardamento, aereo di 45 minuti e a seguire di artiglieria di 25 minuti, sulle linee tedesche. Scoprimmo più tardi questa strategia non fu molto efficace. Il 1° e il 2° Battaglione dell’87° Reggimento dovevano aprire l’offensiva, in particolar modo il primo. L’obiettivo erano le colline 860 e 903, quest’ultima era la montagna più alta sulla borgata di Torre Jussi. La Compagnia B del 1° battaglione diede inizio all'attacco verso la collina 860. La Compagnia A avrebbe dovuto attaccare subito dopo la collina 903. Incontrarono da subito una forte resistenza. Noi eravamo in riserva e sentivamo i proiettili di artiglieria che cadevano ovunque. Guardando fuori dalle nostre postazioni a Monte della Spe e Monte Sinistro, di fronte a Castel d’Aiano, vedevamo i tedeschi che non volevano andarsene dalle loro posizioni. Poi uscirono dai bunker e iniziarono a ritirarsi incalzati dalle due compagnie che avanzavano. La Compagnia B si trovava in alto a sinistra, mentre la A era a destra. Si coprivano a vicenda, entrambe incontrarono una forte resistenza e vi furono molte perdite, morti sparsi lungo tutta la valle. Noi appartenevamo al 3° Battaglione ed eravamo in riserva. Scoprii successivamente che il generale Hays aveva ordinato di tenerci in riserva, e farci intervenire solo se gli altri due battaglioni si fossero trovati in difficoltà. Circa a mezzogiorno la Compagnia A del 1° Battaglione conquistò le posizioni sulla collina 903. Ma c'erano ancora molti crinali verso cui combattere. Più avanti il crinale Le Coste doveva essere preso dal secondo battaglione. All’estrema destra, dopo Monte Croce che dominava il paese di Tolè e Monte Mosca, c’era la statale 64. Quando fu preso Monte Croce ci fu ordinato di portarci sulla linea avanzata del fronte. Iniziammo a scendere di corsa da Monte della Spe per attraversare la valle verso Roffeno. Passando di fianco alla collina 903, vidi tantissimi morti, veramente un massacro. Riuscimmo ad attraversare la valle sempre sotto il fuoco dell’artiglieria tedesca. Rovine dappertutto. Stavo correndo quando vidi che uno di questi corpi apparteneva a un compagno che conoscevo. Era gravemente ferito. Chiedeva disperatamente dell’acqua. Mi stavo fermando per dargliene un po’ dalla mia borraccia, quando il sergente mi disse “No Cruz, non fermarti. Qualcun’altro si occuperà di lui. Tu devi andare avanti”. E così proseguii per la mia strada. Mi sentii tremendamente male per non avergli potuto dare dell’acqua. Anche questo mi ricorderò per tutta la vita. Non ho potuto aiutarlo.
Ora, tuttavia, sempre ripensando a quei momenti, so perché non dovevo fermarmi. Se avessimo soccorso i feriti a terra, quei feriti sarebbero aumentati velocemente, probabilmente anche noi colpiti dal violento fuoco di artiglieria. Vi erano ancora dei cecchini in giro per cui dovevamo proseguire e non fermarci.
Il 15 Marzo il nostro obiettivo era il Monte Croce. Mentre salivamo sul monte fummo fermati da un pesante fuoco di artiglieria e alcuni altri nostri compagni furono feriti. Ancora oggi non riesco a spiegarmi come io sia stato così fortunato, così tremendamente fortunato da non farmi nemmeno un graffio. Una volta usciti dal fossato, nell’avvicinarsi al Monte Croce, altri ragazzi furono colpiti, uccisi dall’artiglieria e dalle mitragliatrici tedesche. Circa alle 4 del pomeriggio salimmo su Monte Croce.
Ho un ricordo particolare di alcuni di quei ragazzi che conoscevo bene. Sergente John Marrone si chiamava quell’uomo steso a terra a cui volevo dare dell’acqua. Furono uccisi anche il sergente Schroeder e il tenente Robert Barr. Quest'ultimo era un ragazzo. Molti dei nostri tenenti erano giovani provenienti dal college dove, alcuni di essi, avevano ricevuto il grado di tenente. Carl Ugenon, Gerold Atkins e Marvin Lusk erano persone che conoscevo e furono ammazzate dal fuoco delle mitragliatrici tedesche.
Le mitragliatrici erano di solito sistemate per coprire, con il loro fuoco, le aree in vista e i mortai coprivano le gole o le zone che non si potevano vedere chiaramente. Ovunque arrivassimo era sempre la stessa procedura: prima che facesse notte piazzavamo tutte le armi pur non sapendo se ci sarebbe stato un contrattacco. Nel tardo pomeriggio stavamo organizzandoci quando il fuoco di artiglieria ci colpì di nuovo, subimmo alcuni contrattacchi dai tedeschi. Due compagni furono feriti, fortunatamente nessuno fu ucciso ma, in generale, ci furono molti feriti su Monte Croce … Monte Cruz. Trascorremmo la notte del 15 Marzo sul Monte Croce. La mattina dopo ci avviammo verso il nostro prossimo obiettivo: il paese di Madonna di Rodiano verso cui procedevamo con la Compagnia K a sinistra e la Compagnia L a destra. Appena partiti subimmo un altro contrattacco tedesco e ci disperdemmo in cerca di riparo. Fu in quell'occasione che conobbi il sergente Ranta. Il sergente Ranta era norvegese. C'erano molti ragazzi norvegesi e svedesi nel nostro gruppo. Il sergente avanzò con il secondo plotone della Compagnia L mentre le altre compagnie erano indietro perché erano state divise dal contrattacco tedesco. Comunque riuscimmo a prendere Madonna di Rodiano dove 67 tedeschi si erano arresi con sei dei loro feriti. Madonna di Rodiano era utilizzata dai tedeschi come stazione di primo soccorso e magazzino di rifornimenti. Fortunatamente nessuno dei nostri uomini vi fu ucciso o ferito. Era il 16 aprile.
Poi tornammo indietro. Secondo i piani avremmo dovuto proseguire ulteriormente verso est fino al Monte Mosca, vicino alla statale 64. Arrivati sul posto scoprimmo che la fanteria della 1ª Divisione corazzata era nei pressi e così decidemmo di tornare indietro e passare la notte a Madonna di Rodiano.
Quella notte ripensai a Torble Ranta, il sergente di uno dei plotoni. Si era distinto nell’attacco a Monte Belvedere e nella seconda offensiva. Fu nominato tenente sul campo. A due soldati era stato assegnato sul campo il grado di tenente. In realtà ve ne furono molti di più ma quei molti erano stati uccisi in azione. Tra tutti, l’unico fortunato a sopravvivere fu il tenente Ranta, il quale fu così in grado di guidare il 2° Plotone fino a Madonna di Rodiano. Entrò nell’edificio del paese e cominciò a gridare per vedere se c’erano ancora tedeschi da fare prigionieri. Chiunque si alzasse in piedi dal proprio riparo prima di avere conquistato un edificio di solito rischiava la propria vita: poteva uscirne con un mazzo di prigionieri, essere accolto da una raffica di mitragliatrice o a fucilate. Chiunque avesse il coraggio di affrontare la situazione in quel modo meritava fiducia e ammirazione da parte di tutti noi. Fu lui ad entrare nell’edificio e ad uscire con dei prigionieri tedeschi di cui sei feriti. Successivamente egli si distinse ancora in altre azioni. Non ho più saputo nulla di lui e non penso si sia più visto nelle riunioni dei reduci nel dopoguerra. Ricordo questi compagni perché erano tutte persone fantastiche. Alcuni ufficiali nascondevano il grado per confondersi e scherzare con la truppa. Un tenente solitamente non va in giro a scherzare con la truppa, si suppone che dia ordini. Gente del genere è da ammirare.
Il giorno 17 ci fu ordinato di rastrellare definitivamente Le Coste. Tornammo indietro verso quel crinale, che era già stato preso dal 2° Battaglione ma sul quale potevano esserci ancora sacche di resistenza tedesche. Cercammo di proseguire il più velocemente possibile. Crinali e montagne non erano ancora state completamente rastrellate e potevano esserci ancora cecchini o postazioni di mitragliatrice tedesche come quelle che prima ferirono, poi, come venni a sapere, uccisero il sergente Marone, quello che volevo soccorrere, a cui volevo dare l'acqua.
Il giorno seguente proseguimmo verso ovest sul crinale dei monti lungo la strada verso Savigno, dove arrivammo verso le 11. Solitamente si mandava una squadra di esploratori in avanscoperta per vedere se la località era occupata dal nemico. Fummo accolti da fuoco di fucili e mitragliatrici. Ci buttammo al riparo della riva sinistra del fiume che avevamo sulla destra. Dopo un po’ di tempo apparvero dei carri armati e fummo costretti a ritirarci in un altro paese dove passammo la notte.
Il 19 aprile il nostro obiettivo era la località Il Poggio. C’era un posto su un crinale dove mandarono degli esploratori e un sergente. Mi ricordo bene di lui, il sergente si chiamava Andrew Battiloro e veniva da New York. Era un compagno alla buona, ben piazzato, sul robusto direi. Era il capo esploratore e gli ci volle un po’ per arrivare là a causa del terreno scosceso. Grazie all’aiuto del binocolo lo vedemmo arrivare, cadere sotto il fuoco dei tedeschi e rotolare giù per una rupe. Un medico tedesco si fece avanti con la bandiera e lo raggiunse, a rischio della propria vita, per prestargli soccorso. Sparì nel burrone e quando riaffiorò da solo supponemmo che Andrew fosse morto. Mi ricordo molto bene di quel ragazzo. Penso fossero tre gli uomini che andarono fin lassù per dirci dove si trovavano le postazioni tedesche. Quando tornarono indietro furono fatti segno dall’artiglieria tedesca. Rastrellata la zona, la Compagnia K poté avanzare oltre. Dopo che il paese fu conquistato furono trovati due uomini tra le rovine. Altri due uomini persi e si trattava, purtroppo, di Tobias Steve e Jilka. Se ricordo bene Jilka era polacco ed eravamo buoni amici. Erano stati uccisi e noi non lo sapevamo. Molti uomini erano colpiti ma finché non perlustravamo la zona conquistata era impossibile accorgersi delle perdite. Loro furono uccisi a Il Poggio. Vorrei tornare in quei posti, a Il Poggio, a Rodiano, a Monte Croce.
Dopo aver lasciato Il Poggio ci dirigemmo verso un altro piccolo paese. Il sergente Sullivan era rimasto a Il Poggio con le mitragliatrici. Egli era responsabile dell’intero plotone armi, sia dei mortai sia delle mitragliatrici. Da quanto ho saputo in seguito, fu attaccato dai tedeschi. La zona non era stata evidentemente rastrellata a dovere e noi intanto avevamo proseguito e lo avevamo lasciato là.
I tedeschi usavano questo trucco: mandavano avanti alcuni che sventolavano bandiere e con le mani in alto, apparentemente dei prigionieri, i quali poi all’improvviso si buttavano a terra per lasciare che alcuni soldati dietro di loro aprissero il fuoco su di noi. Questo capitò soprattutto ad un plotone. È per questo che si evitava di avvicinarsi subito ai prigionieri, troppo rischioso e non ci fidavamo più di loro. É brutto ma questa era la guerra. In guerra la vita perde valore e diventa ... un bene a buon mercato.
Il nostro prossimo obiettivo era il paese di C. Silvestri dove subimmo un altro contrattacco tedesco, a cui rispondemmo a colpi di mortaio. Il sergente Dunbar guidava il nostro plotone mortai.
Ci siamo rivisti poco tempo fa, durante un incontro dei reduci a Colorado Springs. Ha un’attività a Denver ma penso che abiti a Boulder. Ci siamo lasciati con l'intento di rivederci ma da allora non ci siamo più incontrati. Un giorno, quando capiterò a Denver, andrò a trovarlo. A Cà Silvestri a capo del plotone c’era il sergente Robert Manchester. Egli si distinse in occasione del contrattacco da parte dei tedeschi e nella conquista di Cà Silvestri. Mi sembra sia morto alcuni anni fa. Uno dei compagni mi scrisse dicendomi che avevamo perso un altro commilitone della Compagnia K, la quale stava diventando sempre più piccola. Anche il sergente Ranta si distinse là. Egli fu ferito due volte durante la presa di C. Silvestri. Nel frattempo era stato promosso tenente. I feriti sono portati in ospedale e di solito non li vedi più. Un’altro sergente fu ucciso a Cà Silvestri da un tedesco che era nascosto in una trincea. Il sergente Manchester, quello che ho poi rivisto nella riunione dei reduci, gli urlò qualcosa in inglese. Il tedesco smise di correre e Manchester gli sparò e lo uccise. Una mira eccezionale. Sono andato a cercare la foto della Compagnia per ricordare Robert Manchester, un uomo giovane, alto, con due grandi baffi, una persona distinta.
Era il 19 aprile e ci riposammo per un giorno.
Appena prima della Valle del Po c’era un altro piccolo paese, Madonna della Provvidenza, dove c’era un blocco stradale tedesco. Ci stavamo dirigendo verso il paese. La Compagnia K era ancora una volta in prima linea. Fummo attaccati dai tedeschi con una mitragliatrice e carri armati. Persi un altro amico quel giorno, a causa del fuoco di quella mitragliatrice, quando i tedeschi fuoriuscirono all'improvviso e uccisero alcuni dei nostri uomini.
Vorrei ricordare il nome di un altro soldato morto là. Si chiamava John Camillo e veniva da New York. Anche la sua foto sta là in mezzo a tutte le altre. In quel paese a causa del blocco stradale tedesco furono uccise quattro persone. Finalmente l’altra Compagnia, che ci seguiva ad alcuni chilometri, ci venne in aiuto e anche lei si affacciò alla Valle del Po, che si trovava a pochi chilometri da lì, in prossimità una grande strada. Non ricordo il nome della grande strada che attraversammo, comunque andava verso Bologna. Mi sembra che lì perdemmo il nostro ultimo uomo, benché altri soldati in seguito furono feriti.
Proseguendo verso il fiume Po dovevamo raggiungere il ponte di Bomborto e un piccolo paese, Bastiglia. Era giorno, ricordo che ero in bicicletta e tutta la gente lungo la strada si avvicinava e ci offriva vino, formaggio, qualsiasi cosa. Tutti erano così felici e sorridenti. Poi ricordo di una notte in cui, mentre marciavamo, vidi una moltitudine di lucciole come non avevo mai visto prima. Una sera arrivò un aereo che sganciò alcune bombe. Sentendo il rumore dell’aereo in arrivo ci sparpagliammo. Poi arrivammo in un paese da dove sentivamo spari, colpi e ogni sorta di rumore di combattimenti. Non eravamo in prima linea ma appena dietro. Se non avessi guardato l’ora e visto che erano le 23, avrei giurato che erano le 21 circa, poiché era appena buio. Presa la città, vi passammo la notte. Quella città era Bastiglia.
Sei anni fa, durante una visita in Italia organizzata dai i reduci della 10ª Divisione, ci fermammo con l’autobus al ponte di Bomborto. Ripercorremmo la strada di quella volta e passando da un paese all’altro ricordavo le lunghe colonne di uomini distanziati di quattro o cinque piedi lungo entrambi i lati delle strade. E infine il ponte di Bomborto raggiunto durante la notte.
Il 23 aprile ci raggruppammo a S. Benedetto in vista dell’attraversamento del fiume Po. Quello era il nostro prossimo obiettivo. Mi ricordo delle camminate e del giro in bicicletta. Di questo sono certo perché ricordo bene quando dovetti lasciarla sulla riva del fiume, poiché non potevo portarla con me. Il primo battaglione dell’87° Reggimento attraversò il fiume Po per primo verso mezzogiorno. E subito fu raggiunto da una serie di salve di artiglieria... era un fuoco antiaereo. Ma ce la fecero. A loro seguirono il secondo e il terzo battaglione. Ci sentivamo così indifesi su quelle barche. Io ero su una piccola e vecchia barca e stavo attraversando il fiume Po, quando notai la presenza di un paese alla nostra sinistra da dove vedemmo spuntare un motociclista. Poteva essere un osservatore tedesco. Nessuno di noi era preparato per sparare. Pensai che avrebbe potuto colpirci con molta facilità, con una mitragliatrice ad esempio. Noi eravamo allo scoperto.
Dall’altra parte del fiume il cammino proseguì abbastanza velocemente, per circa 40 chilometri. Al giorno d’oggi è piuttosto semplice ma allora eravamo a piedi e avanzavamo marciando.
Devo fare un passo indietro. Dopo aver smantellato la difesa tedesca il generale Hays costituì l'unità Task Force. Era la forza di punta che doveva precedere la divisione verso il fiume Po. Il comandante della Task Force era il generale Duff. Egli fu ferito sul fiume Po da un mezzo che lo investì. Prese il suo posto il colonnello Darby. Nel momento in cui egli subentrò, il 1° Battaglione dell’87° Reggimento stava attraversando il Po mentre noi eravamo nei pressi della città di Verona. Egli arrivò a Verona, poi si diresse verso il Lago di Garda. Il 3° Battaglione, il nostro, non passò per Verona ma tagliò semplicemente in direzione del Lago di Garda. Uno degli altri battaglioni, dopo avere attraversato il fiume Po, arrivò nei pressi di Verona sui camion perché dovevamo dirigerci insieme il più velocemente possibile verso il Lago di Garda. Dopo aver scaricato il primo battaglione a Bussolengo, i camion tornarono indietro per caricare il secondo battaglione. Due battaglioni si mossero verso il Lago di Garda. I tedeschi non facevano resistenza in quel momento. Potevi incontrare un camion tedesco ma proseguire oltre.
La Compagnia K arrivò sul Lago di Garda. Quel giorno eravamo davanti a tutti. Arrivammo sino al paese di Garda attraversando Bardolino e Lazise senza incontrare nessuna opposizione. Magari le cose fossero andate sempre così. Più a nord, dove iniziavano le grandi montagne, ci dissero che avremmo trovato più resistenza da parte dei tedeschi. Il sergente Robert Manchester era alla guida del plotone che, risalendo lungo il Lago di Garda, ebbe uno scontro a fuoco con i tedeschi. Avanzavamo a fatica poiché la maggior parte dei ponti e dei tunnel era stata distrutta. Raggiungemmo il paese di Spiazzi, dove subimmo diverse perdite, a seguito dell’esplosione dei magazzini che i tedeschi avevano minato. Diversi compagni del 1° battaglione rimasero uccisi.
Si può dire che quello fu l’ultimo scontro a fuoco per 87° Reggimento e per la Compagnia K nella campagna d’Italia. Mi sembra che alla fine l’86° oltrepassò Spiazzi e si scontrò con i tedeschi a Torbole. Il generale Hays, in realtà, non avrebbe voluto che i reggimenti che attaccarono Spiazzi e Torbole ingaggiassero battaglia. Ma loro erano già coinvolti e non avrebbero potuto ritirarsi.
Finita la battaglia il nostro battaglione fu l’ultimo a trovare alloggio. In seguito ci assegnarono una villa dove provammo alcune uniformi da generale, facemmo alcune foto dei ragazzi con i cappelli e le uniformi la maggior parte delle quali penso fossero italiane. La guerra per noi finì in quel momento.
Qualche giorno dopo, il 2 maggio, i tedeschi si arresero e dopo i discorsi ufficiali fu ordinato al 3° Battaglione di andare a Bolzano. Questa città si trova sulle Alpi. Il passo del Brennero è a pochi chilometri dalla città e dovevamo stabilirci lì perché c’erano disordini tra le popolazioni della zona. Ricordo che mentre l’intero reggimento saliva da Trento sui camion, in mezzo alla strada, i tedeschi prigionieri scendevano ai lati. Rimanemmo là per tre quattro giorni. La cosa più importante era dare una dimostrazione di forza, calmare la gente e placare i disordini. Durante il viaggio c’era chi voleva innalzare la bandiera italiana, chi voleva quella tedesca o quella austriaca. Alla fine il comandante del nostro battaglione, che è ancora in vita e ha ora ha 80 anni, disse "No, l'unica bandiera che dovete innalzare è quella americana". Erano posti stupendi ma non rimanemmo a lungo nel paese di Solda, solo tre o quattro giorni. Tornammo quindi indietro a sud del Lago di Garda in un paese, di cui ora non ricordo il nome. Siamo rimasti alcuni giorni. In quel paese vidi mucchi di fucili accatastati da cui ne presi uno che poi spedii a casa. Per me tenni una pistola, una piccola Beretta. Avevo un’altra pistola ma la diedi via e vi spiego il motivo. A casa avevo una pistola, era grande... e comunque ero sempre stato impaurito dalle armi. Le tenevo sempre scariche. Un compagno ne aveva una uguale e me la diede. La puntai in aria e premetti il grilletto. Bang... oh mio... era carica. Mi spaventò a morte. Avrei potuto uccidere qualcuno se non l’avessi puntata in aria. A certa gente piace tenere le armi cariche... Non so perché ho premuto il grilletto, volevo solo provarla ma il colpo è partito. Ero terrorizzato.
Non restammo a lungo a sud del Lago di Garda. Il 19 maggio fummo mandati ancora più ad est, vicino al confine con la Iugoslavia, nei pressi del paese di Tarcento dove bivaccammo per circa un mese. Mi ricordo di una valle in mezzo a delle montagne bellissime dove ci esercitammo poiché gli uomini di Tito, che si producevano nelle stesse nostre dimostrazioni di forza, volevano conquistare parte di questa regione Italiana. Erano interessati in particolare a Trieste. Trieste è una città simile a San Francisco e si trova proprio alla fine del mare Adriatico. Volevano avanzare ma, nello stesso tempo, erano intimoriti dalla nostra dimostrazione di forza e non attaccarono. Dopo un po’ la situazione si calmò. Ricordo quando andai a Trieste insieme ad un compagno di cui non rammento il nome. Salimmo su un tram per vedere dove ci avrebbero portato, tornammo indietro fino al porto e da lì rientrammo al campo base.
Nell’area di Tarcento c’erano solo dei piccoli villaggi e poiché pareva fossero disponibili alcuni lasciapassare per una licenza a Roma, che avrei voluto visitare, chiesi di andarci. Purtroppo non c'erano più disponibilità per Roma e mi chiesero in quale altro luogo avrei voluto recarmi e così scelsi Venezia. Ottenni un lasciapassare e una licenza di una settimana ma mi accorsi che non avevo un soldo. “Come farò ad andare a Venezia?” Mi chiesi. Avevo tante sigarette e tre dollari. Vidi i compagni che giocavano a dadi. Io non avevo mai giocato d’azzardo nella mia vita ma cominciai a scommettere e vinsi 25 - 30 dollari grazie ai quali riuscii ad andare a Venezia.
La zona centrale di Venezia è come una baia la cui parte esterna è vicino al mare aperto. Ci sono molti hotel per turisti e alloggiammo in uno di questi. Ero sempre stato incuriosito dal fatto che gli Inglesi mangiavano tenendo la forchetta a sinistra. Andai a passeggio e a mangiare con loro perché l’8ª Armata, composta soprattutto da inglesi, era da quelle parti. Feci dei lunghi giri in bicicletta. Poi tornai al campo.
La festa del 4 luglio la trascorremmo a Robic. Essendo una delle ultime divisioni da combattimento ancora in Italia, pensavamo di starcene là ancora un po’ e che saremmo stati gli ultimi ad andarcene. Invece no: verso la metà di luglio ricevemmo l’ordine di rientrare negli Stati Uniti. Il vero motivo per cui ci fecero tornare indietro così presto era che dovevamo andare nel Pacifico. I giapponesi erano ancora in guerra. Il 17 luglio lasciammo Caporetto verso Udine su dei camion e raggiungemmo, in treno, Firenze dove rimanemmo 10 o15 giorni. Il 28 luglio salimmo ancora sui carri merci diretti a Napoli da cui ci imbarcammo per gli Stati Uniti.
Finita la guerra, dopo che i tedeschi si erano definitivamente arresi, ne incontrai uno: avrà avuto 18 anni, un ragazzo giovane che parlava un buon inglese. ”Vi avremmo battuto, se avessimo avuto più uomini” mi disse. I tedeschi erano ancora particolarmente provocatori, sopratutto quei giovani ribelli. Mi sembra di averlo incontrato vicino al Lago di Garda. Certo, lui era ancora pronto a sfidarci.
Al nostro rientro in America sbarcammo in Virginia, a Newport News. Proprio il giorno prima, per fare bella figura con la gente in patria, ci avevano dato nuove divise perché quelle che avevamo sembravano ‘uccise nel carbone’. Mi ricordo che oltre alle nuove uniformi, perfettamente pulite, ci diedero anche qualcosa da mangiare. Prigionieri tedeschi facevano i camerieri in una caffetteria.
Poi prendemmo il treno e passammo tre giorni a Norfolk. Prima di partire sentimmo dire all’altoparlante che Hiroshima era stata bombardata con una bomba atomica. Non sapevo esattamente cosa fosse una bomba atomica fino a quando non ci raccontarono i danni che poteva provocare. Speravamo che anche la guerra nel Pacifico finisse presto. Sentimmo inoltre che i Russi erano entrati in guerra contro i Giapponesi. Era stata una promessa tra Roosevelt, Churchill e Stalin, quando si trovarono assieme: i Russi sarebbero entrati in guerra non appena fosse terminata in Europa.
Ero da qualche parte nell’Ohio su un treno per la truppa che ci trasportava verso ovest quando sentimmo che la guerra era finita. Potevi vedere la gente nelle strade che urlava di gioia: “La guerra è finita, la guerra è finita!”. Finalmente ero in patria e avrei concluso il mio servizio militare dopo tre o quattro settimane di rapporti a Camp Carson, in Colorado dove si sarebbe riunita la divisione. Tuttavia ci fecero restare qualche giorno in più, in attesa di un altro telegramma. Il secondo telegramma riguardava anche me: dovevo recarmi a Fort McArthur e annunciava il mio congedo.
È strano, ti puoi abituare alla guerra ma non mentre la stai combattendo e ti sembra eccitante. Di contro puoi essere spaventato perché è difficile ritornare indietro, dalla guerra alla pace, ritrovare l’equilibrio. Mi sentivo nervoso, mi sentivo... volevo continuare. Non mi sentivo scoppiare di gioia, non ero così felice insomma.
Ritornato a casa cominciai a lavorare in un deposito. Un giorno un grosso box cadde a terra e io mi gettai sul pavimento. La reazione... come dire... fu istintiva. E pensai che forse non stavo ancora troppo bene. Ecco perché quando sento che alcuni di quei compagni hanno problemi, dopo essere stati in combattimento, io so cosa vuol dire. Fu un’esperienza notevole. La guerra era finita e io non ho più rivisto nessuno dei ragazzi. Sarei voluto tornare indietro nel tempo e, probabilmente come la maggior parte di noi, potere incontrare di nuovo alcuni di loro, salutarli, sapendo però che non sarebbe potuto accadere. La maggior parte di noi, probabilmente, non ne ha più voluto sapere niente.
Ricordo paesi come Lizzano in Belvedere. Erano villaggi in stile antico e le latrine erano fuori all’aperto. La gente passava e ti vedeva mentre facevi i tuoi bisogni. L’Italia è diversa ma la gente è così... non so come dire, gentile. Come raccontavo ad alcuni amici italiani, mi sono innamorato dell’Italia tanti anni fa. Specialmente attraversando quei paesi nella Valle del Po e viaggiando tra le montagne dove puoi trovare piccoli santuari ovunque. Uno dei miei compagni mi faceva notare che “questa gente è così bizzarra”. Mi dissi “ oh my … noi siamo privi di cultura!”. Mi è sempre piaciuta l’arte, la storia e dissi al mio compagno che per questo motivo amavo l’Italia. Hanno così tanto. Noi siamo moderni in tante cose così come, in altre, siamo così indietro.
Essere un soldato e combattere ti fa cambiare modo di pensare. Odiavo la guerra. La odiavo nonostante, allo stesso tempo, fosse emozionante. Per anni non riuscii ad andare a letto prima di mezzanotte. Ero sempre ansioso di sapere cosa stava succedendo nel mondo. Avevo paura che accadesse qualcosa, soprattutto durante la guerra, mentre dormivo. Così rimanevo sveglio, dopo mezzanotte, oltre l’una del mattino. Perfino adesso, almeno fino a qualche anno fa, rimanevo davanti alla televisione fino a tardi perché pensavo che potessero accadere troppe cose nel mondo, mentre dormivo. Questo sono io; non siamo tutti uguali. Mi sono sempre interessato alle questioni mondiali. Mi attirano di più degli avvenimenti locali.
Durante la guerra, la vita si decideva di giorno in giorno. Tornavamo dalle isole Aleutine e successe l'episodio di Tarawa proprio prima di andare oltremare. Se ci fossimo imbarcati un paio di mesi prima, probabilmente saremmo stati dirottati in Europa nella battaglia di Bulge, poiché la 10ª era una Divisione invernale e avrebbero potuto avere bisogno di noi là. Ma non successe. La battaglia di Bulge fu combattuta in inverno. Eh sì, avrebbe potuto essere quella la nostra destinazione.