Per meglio interpretare come l'economia della Gran Bretagna si presentò alle soglie della Seconda guerra mondiale è bene fare un passo indietro, agli inizi del 900.
L'ascesa di nuovi competitori
La Rivoluzione industriale attribuì al regno britannico un vantaggio enorme nei confronti delle altre nazioni occidentali dal punto di vista del grado di sviluppo manifatturiero. Tuttavia, nella seconda metà dell'Ottocento anche queste ultime imboccarono la strada dell'industrializzazione e due di esse riuscirono a percorrerla a ritmo accelerato, giungendo intorno al 1900 a sopravanzare la stessa Gran Bretagna: secondo Cameron e Neal (2005) già nel 1890 gli Stati Uniti erano divenuti la maggiore potenza industriale mondiale e un ventennio più tardi anche il primato a livello europeo era passato di mano, spettando ormai alla Germania.
Stando alle tesi di Allen (2011), ad avviare la diffusione delle nuove modalità di produzione industriale al di fuori del Regno Unito furono, paradossalmente, i progressi che l'industria britannica realizzò nel tentativo di rafforzare ulteriormente la propria competitività. A parere di tale autore, una delle ragioni per cui la Rivoluzione industriale era avvenuta in Gran Bretagna e non altrove risiedeva nel fatto che in tale nazione la meccanizzazione dei processi industriali risultava assai più conveniente che altrove, in ragione dell'elevato costo della manodopera e del basso prezzo del carbone ivi sussistenti; quando però i perfezionamenti tecnici che si succedettero nel corso dei decenni condussero a un significativo miglioramento dell'efficienza delle macchine a vapore, l'introduzione delle medesime divenne redditizia anche laddove i salari erano meno elevati o il carbone meno a buon mercato.
L'ascesa di nuove nazioni industriali fu poi agevolata, nell'ultima parte del XIX secolo, dal diffuso ritorno al protezionismo. Come rileva Bairoch (1996), mentre nel ventennio 1860-80 la politica di promozione del libero commercio praticata dal Regno Unito aveva conosciuto notevole successo, negli anni successivi gli Stati Uniti e i paesi dell'Europa continentale presero o ripresero a colpire le proprie importazioni manifatturiere tramite l'imposizione di elevati dazi. Questa svolta politica consentì alle industrie di tali paesi di operare sui rispettivi mercati interni al riparo della concorrenza sino ad allora apportata loro dalla più progredita industria britannica, facilitandone quindi lo sviluppo.
Nella loro affermazione, tali nazioni furono aiutate anche dal fatto stesso di incamminarsi sulla strada dell'industrializzazione in ritardo rispetto alla Gran Bretagna. Come rileva Kemp (1997), tale ritardo le pose difatti in condizione di dotarsi di attrezzature più moderne di quelle in uso in quest'ultimo paese. Il vantaggio da esse così acquisito, beninteso, avrebbe potuto venir meno qualora gli imprenditori britannici avessero reagito all'avanzata di questi nuovi competitori rinnovando le proprie strutture produttive, in modo da munirsi anch'essi delle più avanzate tecnologie disponibili; ma essi si mossero in tale direzione con molta lentezza, non riuscendo così ad impedire che venissero loro sottratte rilevanti quote del mercato mondiale. Questa inerzia si spiega, sempre secondo Kemp, col fatto che il mantenimento in attività di vecchi impianti, le spese per il cui approntamento erano state ormai completamente ammortizzate, risultò per lungo tempo più redditizio della loro sostituzione, la quale avrebbe sì consentito di non perdere posizioni sul mercato, ma avrebbe anche richiesto l'effettuazione di nuovi investimenti.
Il mancato rinnovamento dell'industria
Quest'ultima argomentazione fa emergere come a determinare la riduzione e in casi estremi l'annullamento del divario tra la Gran Bretagna e gli altri paesi occidentali fu non soltanto la capacità dei secondi di progredire, ma anche l'inadeguata difesa del proprio primato da parte della prima. A tale proposito si può citare anche la posizione di Barratt Brown (1977), per il quale nel tardo Ottocento gli industriali britannici furono disincentivati dall'investire nel miglioramento tecnologico degli impianti dalla persistente disponibilità di manodopera a buon mercato, garantita dall'afflusso di immigrati irlandesi. Un altro fattore di arretratezza è stato individuato nella renitenza degli operatori britannici a rinnovare, oltre che le tecniche in uso, l'organizzazione della produzione, al fine di renderla più efficiente tramite la creazione di grandi imprese integrate verticalmente. Secondo Jha (2007), ciò dipese dalla dipendenza dell'industria del regno dal commercio internazionale (ossia dalle sue colonie, fondamentali per essa come fornitrici di materie prime e come mercati di sbocco), la quale, rendendo le imprese ivi operanti vulnerabili ad eventi che si verificavano in altre nazioni e che pertanto non erano controllabili da parte del governo di Londra, istigò le medesime a mantenere una struttura snella e flessibile, che consentisse loro una rapida capacità di reazione ai cambiamenti sfavorevoli: un condizionamento che ebbe per l'appunto l'effetto di ridurre le possibilità di integrazione fra le diverse parti della struttura industriale.
Questo conservatorismo sul fronte sia tecnologico che organizzativo può essere ricondotto altresì alla propensione degli operatori finanziari a privilegiare gli investimenti esteri, di cui dà conto Barratt Brown: essa difatti potrebbe avere fatto sì che i capitali disponibili per impieghi in ambito industriale, a dispetto dell'eccezionale sviluppo conosciuto in Gran Bretagna dal comparto finanziario, risultassero scarsi e quindi costosi. Tale propensione può essere ricondotta all'esistenza al di fuori del paese di possibili impieghi più sicuri e remunerativi di quelli rappresentati dagli investimenti nell'industria nazionale, quali quelli (citati dallo stesso Barratt Brown) in titoli di stato esteri; ma in verità è difficile comprendere in quale misura la proiezione internazionale della finanza britannica sia stata causa del mancato rinnovamento dell'apparato manifatturiero e in quale sia stata invece conseguenza di tale fenomeno, in quanto proprio la perdita di competitività dell'industria nazionale nei confronti di quelle straniere può avere spinto gli operatori della City a privilegiare gli investimenti esteri. Questo punto di vista è sostenuto da Arrighi (2008), il quale peraltro, se da una parte afferma che fu il ridursi delle opportunità di investimento redditizio nell'industria nazionale a generare la fuoriuscita di capitali dal paese, dall'altra ritiene che quest'ultimo fenomeno abbia aggravato il primo, in quanto i capitali britannici in cerca di impieghi maggiormente remunerativi di quelli reperibili in patria risultarono attratti in particolar modo proprio dal paese - gli Stati Uniti d'America - che più rapidamente stava sviluppandosi (e dunque più stava minacciando l'egemonia britannica in ambito industriale).
Un ultimo punto da sottolineare è quello, rilevato da Cameron e Neal, della modesta preparazione tecnica degli imprenditori e dei manager britannici, dovuta alla scarsa rilevanza che veniva attribuita alle materie scientifiche nel sistema scolastico del Regno Unito. Questo fattore dovette assumere rilevanza a partire dagli ultimi decenni dell'Ottocento, quando si sviluppò la cosiddetta "seconda rivoluzione industriale", fondata sulle tecnologie dell'acciaio, della chimica e dell'elettricità: nella fase che allora si aprì, difatti, la ricerca scientifica venne ad assumere un ruolo assai più rilevante che in passato ai fini del progresso industriale.
L'espansione dell'intervento pubblico nell'economia
Malgrado la posizione di preminenza della sua industria stesse venendo meno, la Gran Bretagna si mantenne a lungo fedele alla propria tradizionale politica di difesa del libero scambio, senza adeguarsi alle tendenze protezioniste e interventiste espresse dai paesi di nuova industrializzazione. Questa linea di condotta, però, venne forzatamente meno con lo scoppio della prima guerra mondiale, la quale rese necessaria una stretta regolamentazione della produzione e del commercio, per garantire la sicurezza delle forniture militari e degli approvvigionamenti alimentari. Di questa trasformazione della politica economica britannica dà conto Berend (2008), il quale riferisce dell'introduzione di controlli sulle attività economiche e addirittura della nazionalizzazione di interi settori a partire dal 1914, come pure dell'introduzione di tariffe doganali a protezione della produzione agricola e manifatturiera nazionale. In quel frangente le esigenze belliche condussero pure a un incremento della spesa pubblica di portata tale da far crescere di quasi dieci volte la quantità di valuta circolante: un fenomeno che impose l'abbandono della convertibilità in oro della sterlina, che aveva contribuito a mantenerne elevato il valore e dunque a promuoverne l'utilizzo nelle transazioni internazionali. Terminato il conflitto, si tentò di tornare alla situazione preesistente, attenuando i dazi doganali e ripristinando il rapporto della moneta con l'oro, nella speranza di riportare il commercio internazionale ai livelli dell'anteguerra e di mantenere la Gran Bretagna al centro del sistema finanziario mondiale (anche al prezzo d'una penalizzazione dell'industria nazionale, la quale scontò la rivalutazione della sterlina); ma queste politiche furono stroncate dalla grande crisi degli anni trenta, che indusse il governo a sposare nuovamente la linea d'una forte regolamentazione pubblica dell'economia, coerentemente con quanto stava avvenendo negli altri paesi. Dopo la seconda guerra mondiale questa tendenza interventista si accentuò ulteriormente sul fronte della presenza dello stato nella proprietà delle imprese, in quanto si ebbe la nazionalizzazione di vari settori e di singoli operatori considerati d'importanza strategica per l'economia del paese (quali le miniere di carbone, le ferrovie, la produzione di elettricità, il trasporto aereo, la Banca d'Inghilterra, parte dell'industria petrolifera e aeronautica). Il protezionismo doganale venne invece ancora una volta abbandonato, in ragione dell'adesione ad organizzazioni che promuovevano il libero scambio tra i paesi membri: difatti la Gran Bretagna nel periodo 1960-1972 fece parte dell'EFTA (European Free Trade Association), da essa stessa costituita assieme ad altri paesi non appartenenti alla CEE, per poi diventare, a partire da quest'ultima data, membro proprio della CEE (essendo caduto il veto sino ad allora posto dalla Francia alla sua adesione).
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Fonte: Pubblicazione n°19 del febbraio 2014 della Biblioteca del Senato della Repubblica