Un cavallo, una sciabola, una sella
e l'avvenire in tutto il suo splendore.


I precedenti- La riduzione degli effettivi- Il dopoguerra- I difensori e gli oppositori- Il generale Grazioli e i Corpi celeri.
La cavalleria fu la grande sconfitta della prima guerra mondiale nella quale, salvo sporadici episodi, non ebbe che una limitatissima influenza sulle operazioni.

I Tedeschi schieravano undici divisioni, dieci i Francesi con dodici reggimenti corazzieri che scesero in campo con elmi e corazze, undici gli Austriaci e una gli Inglesi le cui gesta sono state vividamente descritta da C.S. Forester in “Il Generale”. L'Italia aveva in organico quattro divisioni: Friuli, Lombardia, Piemonte e Veneto su otto brigate di sedici reggimenti, altri quattordici reggimenti erano di supporto ad altrettanti corpi d'armata. Agli organici fu aggiunto nel periodo della neutralità un nuovo reggimento che prese il nome di Reggimento Palermo.

All'inizio del conflitto la dottrina, con poche variazioni, era basata sull'esplorazione, la ricognizione, la copertura dei fianchi e della ritirata, l'inseguimento.

L'esperienza dei primi giorni di guerra dimostrò che il soldato a cavallo, con la lancia e la spada, non aveva nessuna possibilità di sopravvivenza.

I precedenti
La cavalleria, resa quasi invincibile nell'età feudale dal suo equipaggiamento, andò incontro nei secoli successivi a un inevitabile decadimento provocato dalle armi da getto, archi lunghi e balestre, dall'apparire dei ferrigni quadrati svizzeri irti di picche, da armi da fuoco che l'Ariosto definiva: "O abominoso o maledetto ordigno", sempre più micidiali.

Nel '500, adattandosi ai tempi, si divise tra cavalleria pesante e leggera. La prima attuava il caracollo, consistente nell'avanzare a piccoli reparti contro la fanteria, scaricando le armi da fuoco a una distanza di 25/30 metri. La seconda coordinava le sue azioni con la fanteria e l'artiglieria e diventerà il modello della futura cavalleria, ridotta a funzioni subordinate alla "regina delle battaglie".

Nel 1878 il generale Moltke scrive: "La cavalleria è incapace di penetrare in un sistema di sicurezza organizzato, ed è pure incapace di costringere il nemico a rivelarsi, se esso è fermamente deciso a non volerlo".

La conferma venne dalla guerra russo-giapponese del 1904. Nelle vaste pianure della Manciuria, la cavalleria zarista, della quale i cosacchi costituivano il nerbo, non riuscì a incidere sull'esito delle operazioni.

Il generale francese Pedoya annotava nel 1906 che il peso dell'Arma diminuiva "de jour en jour", a seguito del "perfectionnement de l'armament qui lui a interdit de tenter de que son tempérament la poussait a faire autrefois".

La guerra nel lontano Oriente non fu analizzata dagli stati maggiori e la cavalleria nella Grande Guerra rimase in vigile attesa nelle retrovie pronta a entrare in azione, bandiere al vento e sciabole in pugno.

L'attesa non finirà mai.

La riduzione degli effettivi
Fu un generale di cavalleria, il primo della lunga serie di generali, tra cui 24 di corpo d'armata, a essere silurato da Cadorna.

Il disegno operativo prevedeva, per la prima giornata di guerra, la fulminea occupazione dei ponti a Pieris sull'Isonzo per impedirne la distruzione. La cavalleria impiegò una giornata a percorrere i 15 chilometri che separavano Palmanova dal fiume, seguendo le prescrizioni: "I reparti avanzanti per primo devono fare il minore uso possibile delle rotabili, procedendo anche guardinghi per il terreno adiacente alle strade, e preceduti da individui che, muniti di strumenti, rimuovano nella maggior misura possibile gli impedimenti alla marcia e siano in grado di avvertire per tempo i reparti retrostanti".

Nell'autunno 1915, i reggimenti partiti per la guerra tornarono ai loro depositi o furono retrocessi a compiti di retrovia e le sezioni di mitragliatrici, delle quali al fronte la penuria era grandissima, furono assegnate a reggimenti di fanteria. Molti ufficiali passarono all'aviazione, arma emergente, diventando assi tra cui il leggendario Francesco Baracca con le sue 34 vittorie o grandi "pubblicitari" come Gabriele D'Annunzio, osservatore dell'Aviazione della Regia Marina, già tenente dei Lancieri di Novara.

Altri, allo scopo di ripianare le deficienze e le perdite nei quadri dell'artiglieria, ricoprirono incarichi che non richiedevano un particolare addestramento tecnico, quali addetti ai comandi di artiglieria di corpo d'armata, ufficiali esploratori di gruppi di artiglieria, comando carriaggi, colonne munizioni e depositi cavalli da tiro.

Nel febbraio 1916 il Comando Supremo, di fronte allo spaventoso stillicidio di perdite della fanteria, dispose l'appiedamento di numerosi reparti affinché: "Nessuna delle forze rimanga inoperosa anche per mettere a contributo il tesoro di energia e di preparazione dell'Arma di Cavalleria".

La prima, la seconda e la quarta divisione combatterono in linea con i fanti. Il rendimento fu mediocre, i cavalleggeri non erano addestrati per questo tipo di combattimento. Nello stesso 1916 le divisioni furono ritirate, rimontate, divise fra i corpi d'armata sino al 1918 quando, in attesa del sospirato sfondamento, divennero una riserva generale del Comando Supremo.

In Germania furono appiedate tre divisioni, trasformate in Divisioni Tiratori di Cavalleria. Il generale Bernhardi, ufficiale di cavalleria, storico e teorico militare, sosteneva: "La cavalleria può partecipare al combattimento solo se appiedata […] nella guerra di posizione è normalmente suo compito esclusivo il servizio di polizia […] ma anche nella guerra di movimento il combattimento a cavallo, quale forma di attacco, si limiterà a pochi casi eccezionali".

Scriveva il tenente generale Schwartz nel suo “Addestramenti militari della Grande Guerra”: "[…] I cavalieri non sapevano adoperare con sicurezza l'arma da fuoco, mancavano di allenamento nella lotta in ordine sparso, non riuscivano a sfruttare a piedi il terreno". Van der Golz aggiungeva: "Un superbo squadrone appiedato non rappresenta che un modesto reparto di fanteria".

I cavalleggeri francesi, che avevano in dotazione moschetti sforniti di baionetta, andarono più volte all'assalto impugnando la lancia.

La cavalleria italiana nei bollettini di guerra fu nominata 26 volte, quasi sempre per azioni di reparti appiedati.

Allo scopo di rilanciare le chances dell'Arma, il reggimento Cavalleggeri di Aquila alle ore 14,50 del giorno dell'armistizio, che scatterà alle ore 15, fu lanciato in una carica insensata contro posizioni austriache. Nello spazio di 300 metri le mitragliatrici sterminarono 290 uomini. Tra essi il sottotenente napoletano Achille Balsamo di Loreto, di anni 19, medaglia d'oro, il cui monumento funebre si trova nel cimitero monumentale della città.

A guerra finita le divisioni di cavalleria furono le prime a essere trasferite dal teatro delle operazioni all'interno del Paese per i grandi problemi logistici creati dalla necessità di foraggiare i cavalli. Per 150 quadrupedi era necessaria una tonnellata e mezzo di avena e foraggio.

Il dopoguerra
Nell'immediato dopoguerra il nuovo Ordinamento recepì l'esigenza di ridurre gli organici. In quello provvisorio del 1919, la forza fu ridotta a un ispettorato, due comandi di divisione, sei di brigate e sedici reggimenti, con l'abolizione dei reparti ciclisti e mitraglieri. Rimasero in vita i reggimenti di più antiche tradizioni: Nizza Cavalleria, Piemonte Reale Cavalleria, Savoia Cavalleria, Genova Cavalleria, Lancieri di Novara, Lancieri d'Aosta, Lancieri di Milano, Lancieri di Montebello, Lancieri di Firenze, Lancieri di Vittorio Emanuele Secondo, Cavalleggeri di Foggia, Cavalleggeri di Saluzzo, Cavalleggeri di Monferrato, Cavalleggeri di Alessandria, Cavalleggeri di Lodi e Cavalleggeri di Lucca.

Nel successivo 1920, si ebbe un'altra riduzione con un comando divisione, quattro brigate e dodici reggimenti; l'organico non subì variazioni nel 1928.

Le lance ormai anacronistiche, e che pure rimasero in dotazione a reparti tedeschi, inglesi, rumeni e polacchi nell'immediato dopoguerra, furono assegnate solo ai reggimenti Nizza Cavalleria, Piemonte Reale Cavalleria, Savoia Cavalleria e Genova Cavalleria; saranno ammassate nei depositi allo scoppio della seconda guerra mondiale.

L'armamento era costituito dal moschetto e dalla sciabola. Ai reggimenti lancieri erano fatte affluire reclute alte metri 1,62/1,72 con peso non superiore a 62 chilogrammi, per gli altri reparti metri 1,58/1,68 e un peso di kg. 56.

La cavalleria partecipò alle operazioni per la riconquista della Libia con formazioni di cavalleggeri indigeni savari, spahis e meharisti. Nel 1923 uno squadrone del reggimento Cavalleggeri di Alessandria fu inviato in Cirenaica, alla fine dell’anno i reparti tornarono in Italia per la manifesta impossibilità di partecipare alle operazioni.


I difensori e gli oppositori

Con l'attenuarsi della memoria degli orrori della guerra riemerse, e non solo in Italia, il sostanziale conservatorismo degli organismi militari che, affetti da aprioristici dogmatismi, compatti scesero in campo a difesa dell'Arma, anche alla luce di una futura guerra di movimento.

É' un epicedio, un florilegio di attestati di stima e fiducia che si rifanno all'autorevole generale Badoglio il quale già nel 1906 si era dichiarato contrario, in un articolo pubblicato dalla Rivista Militare Italiana, ad alterare la proporzione tra la cavalleria, per la quale aveva calde parole di ammirazione, e le altre armi: " […] Io ammiro, è la sola parola propria per l'occasione, ammiro quest'arma che lavora e lavora indefessamente, e giornalmente si espone ai rischi più pericolosi, ai cimenti più duri […] Esprimo perciò l'avviso che non solo non si debba addivenire ad alcuna riduzione dell'arma, ma che al più presto si debba porre la cavalleria nelle migliori condizioni di poter efficacemente far sentire la sua azione nei giorni supremi del cimento […] Non cominciamo a demolire quanto di meglio abbiamo in noi, colle nostre stesse mani".

Il colonnello Bastico nella sua voluminosa opera “L'evoluzione dell'arte della guerra” edita nel 1923, sosteneva che la cavalleria poteva conservare: "Il suo posto d'arma ausiliaria" e che "Commetterebbe un ben grave errore quell'esercito che di fronte a probabilità non confortate da prove esaurienti scancellasse dal numero delle sue armi la cavalleria".

        Il tedesco Bernhardi: "Oggi il pericolo è che si disprezzi totalmente la cavalleria come tale", e, aggiungeva: "Ma, di per se stessa, la cavalleria è una vera necessità se si vuole che la guerra abbia una certa probabilità di successo. Insisto molto su questo punto perché prevedo che i moderni benefattori del popolo, [il riferimento era alla classe politica di Weimar] nella loro crassa ignoranza della vera guerra, batteranno in breccia per l'appunto la cavalleria e procureranno in ogni modo di sopprimerla completamente, o quanto meno di ridurla di molto".

Il francese generale Weygand, grande sconfitto della seconda guerra mondiale, lamentava l'opposizione: "Contro un'arma che ha fulgide tradizioni di signorilità e disciplina".          

I vaticini sul futuro dell'Arma sono numerosi e improntati a un notevole ottimismo.

Nel 1925, sulla rivista La Cooperazione delle Armi Raffaele Pelligra è sicuro: "La cavalleria risorgerà quasi a ripagarla dell'odierno abbandono". Sette anni dopo Egidio Marras, all'epoca ufficiale di stato maggiore, poi addetto militare a Berlino, capo della missione militare presso il comando supremo germanico e infine nel 1950 Capo di Stato Maggiore della Difesa scrisse: "Nell'attuale situazione i mezzi meccanici non hanno la possibilità di sostituire la cavalleria".

A queste conclusioni, che erano condivise dalla stragrande maggioranza dell'ufficialità e della pubblicistica italiana, si associò un aureolato capo britannico.

Sir William Douglas Haig, ufficiale di cavalleria, comandante supremo del corpo di spedizione in Francia, nel suo rapporto al governo del marzo 1919 arriva a concludere: "L'effetto morale della cavalleria è schiacciante e costituisce di per se solo una ragione sufficiente per conservare quest'arma". Il pensiero è trasfuso nel regolamento per l'addestramento della cavalleria del 1920: "[…] L'effetto morale di un attacco a cavallo - sciabola o lancia alla mano - permane grande quanto mai, sempre che il nemico non sia riparato da ostacoli naturali o artificiali", si potrebbe aggiungere o potenziato da mitragliatrici.

Anche i pensatori militari di paesi minori come il Regno S.H.S. (Serbi - Croati - Sloveni), sussidiari del pensiero della scuola militare francese, considerata all'epoca e sino al 1940 la prima d'Europa, hanno le stesse idee. Il periodico “Ratnik” (Il guerriero) edito dal ministero della Guerra pubblica un articolo di Pietro R. Zicovich nel quale, dopo averne messo in luce i limiti operativi, premessa che si trova in tutta la pubblicistica sull'Arma, conclude con l'immancabile monito: "Chi non avrà cavalleria perderà la guerra".

La patetica, dogmatica difesa dell'Arma, la nostalgica retorica, il rifiuto dei tempi nuovi assumono i toni più lirici nelle parole del generale francese Blacque Belair che nel 1919, e sono trascorsi pochi mesi dalla fine della Grande Guerra, scrive: "É l'arma del corpo a corpo, e che fino a che non abbia raggiunto il nemico con la punta delle sue sciabole o delle sue lance non ha guadagnato la sua paga, sarebbe un corpo senz'anima".

É in attuazione di questi principi che il dieci maggio 1940 contro le panzer divisioni avanzanti a nord della Mosa il comando francese lancia quattro divisioni di cavalleria: "Sono truppe fortemente inquadrate, ben allenate e di grande valore. Come le brigate di cavalleria polacche, valorosissime, esse falliscono e devono ripiegare, perché non vale la bravura sotto il fuoco micidiale che parte dalle torrette invulnerabili dei carri corazzati".

Nel gennaio dell'anno successivo sulla Rivista di Cavalleria il generale Ugo Sani riesce ancora a scrivere: "Anche nelle guerre future vi saranno pur sempre zone e momenti ove soltanto il fante con le sue gambe e il cavaliere con il suo cavallo hanno possibilità di agire".

Commenta Liddell Hart: “Un esercito è un’istituzione non solamente conservatrice ma retrograda per natura, un’esperienza di più di 2000 anni prova che vi è solamente una cosa più difficile di introdurre una idea nuova nei costumi militari, è di cacciarne una vecchia”.

L'appassionato sostegno di un’Arma dalle fortissime tradizioni, è gravemente svantaggiato e dalla mancanza di personaggi carismatici e dallo scarso peso culturale dell'ufficialità dell'Arma, tra cui si annoveravano i rampolli dei più nobili casati dell'aristocrazia, rinchiusi nello stereotipo dell'ufficiale che: "Sapeva fare nascere dalle notti scapigliate l'aurora delle grandi imprese!".

Scriveva Michael Howard: "L'eleganza e l'anacronismo erano destinati a rimanere una caratteristica peculiare della cavalleria europea ancora per molti secoli. Neppure oggi si è cancellata del tutto". Un antico snobismo che aveva a fondamento una presunta superiorità sulle altre armi e lo spirito di corpo sono alla base delle fulgide tradizioni di coraggio scriteriato che raggiunse il suo apogeo nella battaglia di Balaklava del 1854 in cui, su 600 cavalieri inglesi lanciati alla carica, 247 rimasero sul campo. Il generale francese Basquet, spettatore della carica, osservò: "C'est beau, mai ce n'est pas la guerre!".

D'altronde l'Arma diede un solo capo di stato maggiore al Regio Esercito, il generale Vittorio Ambrosio in carica dal gennaio 1942 al febbraio dell'anno successivo, decimo dei 13 ufficiali che coprirono la carica nel ventennio fascista.

In quello straordinario modello di capacità ed efficienza costituito dalla Wehrmacht, comandanti di panzerdivisionen come von Manteuffel, von Kleist, Westphal, Hopner, von Mackensen, Senger und Etterlin proveniva dalla cavalleria. Quest'ultimo aveva comandato l'unica divisione di cavalleria nella battaglia di Francia, prima di passare all'arma corazzata.

Va aggiunto che oltre a motivazioni "ideologiche", esisteva anche l'istinto dell'autoconservazione, la difesa delle carriere, di uffici e posizioni che, non solo nella cavalleria, erano alla base di quella grande corporazione burocratica che era l'esercito.

In questo contesto culturale la pochezza intellettuale viene alla luce quando si ripetono con ricorrente monotonia gli stessi slogan: l'impeto della carica, il nobile destriero, il coraggio, la sorpresa e così via, senza nessun apporto, d'altronde impossibile, di nuove idee.

La nuova realtà, che si poteva condensare nell'impossibilità di superare un velo di mitragliatrici, non voleva essere accettata. L'unica possibilità di sopravvivenza, la completa trasformazione della cavalleria in arma corazzata, non ha fortuna in Francia e in Italia, paese fortemente ancillare nei confronti della "sorella latina".

Sono pochi a battersi per l'abolizione dell'Arma ormai anacronistica.

Liddell Hart, capitano di fanteria nella Grande Guerra, osservava che le nuove idee furono accolte: "Con l'entusiasmo che la carne di cavallo macellata solleva in una caserma di cavalleria”. Sulla rivista del Royal United Service Institution (RUSI), il colonnelle Croft ne chiedeva l'abolizione già nel 1919; a lui si univano i seguaci della Giovane Scuola tra cui primeggiavano il generale John Frederik C. Fuller e Basil Liddell Hart che auspicavano la meccanizzazione dell'esercito. Nemmeno Winston Churchill, che con il suo peso politico si era unito alla richiesta, riuscirà a vincere l'incrollabile opposizione dell'apparato militare.

Dovrà arrivarsi all'anno 1937 per vedere i reggimenti di cavalleria trasformarsi in reggimenti motorizzati o meccanizzati e l'eliminazione del traino animale sostituito da una completa motorizzazione. Va riconosciuto alla Gran Bretagna il merito di essere stato l'unico paese a iniziare la seconda guerra mondiale con un esercito completamente motorizzato, senza formazioni di uomini a cavallo. In Germania nell'attacco alla Francia l'unica divisione di cavalleria si accodò trotterellando alle divisioni corazzate del gruppo di armate von Rundstedt.

In Italia, nel coro di esaltazione della "gloriosa Arma", non mancavano voci contrarie come quella del generale Fortunato Marazzi il quale nel suo “L'esercito dei tempi nuovi” del 1901 osservava che il costo dell'addestramento di 20.000 cavalieri corrispondeva a quello di 40.000 fanti. A lui si aggiunse il tenente colonnello Natale Pentimalli, che nel saggio “La nazione organizzata” del 1922 propone senza perifrasi l'abolizione dell'Arma non solo perché inutile ma anche per l'alto costo della sua organizzazione.

Entrambi non fecero una luminosa carriera.

Tali tesi erano confortate dalla lettura del bilancio dello Stato del 1921-22 nel quale si rileva che l'importo per il mantenimento di un cavallo era di poco inferiore a quello per il mantenimento di un soldato (£ 1928,60 - £ 1944,95).

D’altronde Il rapporto tra l’uomo a cavallo e quello a piedi era sempre favorevole a quest’ultimo. Cento fanti erano trasportati da quattro camion nei quali potevano mangiare e riposare a differenza di uno squadrone di cavalleria che, nel percorso, andava soggetto a un notevole affaticamento. Tutti i fanti partecipavano al combattimento mentre un certo numero di cavalleggeri era destinato alla custodia dei quadrupedi. Anche il vantaggio della cavalleria di poter procedere su terreni rotti, nel tempo andava diminuendo con il perfezionamento dei veicoli cingolati.    


Il generale Grazioli e i Corpi Celeri

La necessità di evitare "la condanna a morte della cavalleria come arma di battaglia", (in virgolettato si riportano le parole del generale) e di potenziarla per assicurarne la sopravvivenza, si affaccia in un articolo del generale Francesco Saverio Grazioli, una delle voci militari più autorevoli, già comandante del Corpo d'Armata d'Assalto pubblicato sulla Rassegna dell'Esercito Italiano del gennaio 1922.

Premesso che il rendimento delle unità di cavalleria appiedate nella passata guerra era stato mediocre, diagnosi che anche i più appassionati sostenitori dell'Arma non potevano decentemente contrastare, l'autore riteneva però eccessivo privarsi del tutto della cooperazione: "[…] del nobile animale […] perché intimamente connesso all'essenza stessa dell'azione bellica".

Pur riconoscendo che "[…] con i ciclisti e i mezzi meccanizzati" l'Arma aveva perso il primato della velocità sulla strada, con l'aviazione quello dell'esplorazione, con i corazzati quello delle grandi cariche, d'altronde rese impossibili dalle armi automatiche, rilevava che: "La celerità di movimento fuori strada, su strade campestri e comunque inadatte per l'impiego dei ciclisti o di altri mezzi meccanici di trasporto era proprietà esclusiva della cavalleria" e in quei terreni l'Arma poteva dare il meglio di se: "[…] là può esplorare, può sorprendere, può combattere, può collegare".

Da queste constatazioni e dalle presunte limitazioni dell'aviazione: “che non fa prigionieri” e dei carri armati: “che spesso sono meno duttili e veloci dei cavalli”, nasce la necessità non della sostituzione ma della integrazione. dei nuovi mezzi alla cavalleria

Proponeva, ma la cosa non era una novità, di riunire: "[…] tutti gli elementi celeri di cui gli eserciti moderni possono disporre e cioè cavalleria, ciclisti, fanteria e genio autoportati, artiglieria a cavallo, artiglieria leggera autoportata e artiglieria pesante campale autotrainata, autoblindo e aviazione", con la strana esclusione dei carri armati.

Il tallone di Achille di questa costruzione, l'abbinamento di unità diverse ed eterogenee, restava sempre il fuoco nemico, il fuoco delle armi automatiche capaci di annientare interi reparti in pochi minuti, contro il quale velocità, coraggio, impeto non servivano a nulla e a nulla valevano le osservazioni del Grazioli sui: "terreni coperti"', sulle combinazioni tra: "rapidi spostamenti a cavallo con improvvisi appiedamenti" e, ancora: "combattimenti all'arma bianca".

Da queste premesse nasceva l'idea dei corpi celeri misti, definiti ironicamente un “cocktail di avena e benzina”, il cui compito principale doveva essere, novella cavalleria napoleonica, lo sfruttamento degli sfondamenti nello schieramento nemico.

Un complesso di Armi ben coordinate e aventi come base la celerità: cavalleria, sussidiata da armi automatiche, artiglieria leggera a cavallo, ciclisti e mitraglieri ciclisti, artiglieria autoportata e ippotrainata, reparti motorizzati del genio ai quali si aggiungeva l'arma aerea.

Grazioli si rendeva conto che il comando di questi corpi e i procedimenti di azione presentavano enormi difficoltà di attuazione per le diverse velocità di movimento, per le difficoltà dei rifornimenti e per la necessità dell'assiemaggio di forze diverse ed eterogenee, ma se ne lava le mani limitandosi a lanciare l'augurio che il problema appassionasse: "i moderni ufficiali di cavalleria". Era una caratteristica dei pensatori militari italiani di non approfondire le problematiche evidenziate, limitandosi a enunciazioni di principi per i quali non erano disposti a battersi. Il ricordo torna all'immagine di Charles De Gaulle che, per la caparbia difesa delle sue idee, si mise contro Pétain, suo padre putativo.

Le prime esercitazioni si ebbero nel Friuli nel luglio 1922. Successivamente nel biennio 1928-29 si organizzarono grandi unità celeri con cavalleria, bersaglieri, carri armati leggeri unici disponibili, artiglieria a cavallo e motorizzata. I Celeri ebbero la loro consacrazione nel maggio 1930 quando furono costituite due divisioni.

Fu il generale Bastico ad avanzare acute osservazioni sul valore operativo di questi corpi così diversi tra di loro.

Le idee del Grazioli sulle quali l'autore ritornerà in un altro articolo nel luglio 1931 sulla Nuova Antologia e che il generale Zoppi approfondirà in un libro “I celeri” pubblicato nel 1933, tutto permeato di quella insopportabile, ridondante retorica che caratterizzò gli anni trenta dell'era fascista: " […] un vasto, intelligente e organico sfruttamento sorto dalla Vittoria e dal Fascismo, e dalle geniali e possenti organizzazioni che questo ha solidamente creato […]", porteranno alle Divisioni Celeri che entreranno in guerra con 418 automezzi, 2154 quadrupedi e 7300 uomini.

Non è difficile intuire i pensieri di un carrista di un Panzerkampfwagen VI Tiger (H) Sd Kfz 181, pesante 57 tonnellate, armato con un cannone da 88 mm. L/56, il cui proiettile poteva perforare a mille metri una corazza di 167 mm, con una mitragliatrice coassiale più sei fumogeni in torretta, un'altra mitragliatrice in casamatta, una pistola lanciarazzi/lanciabombe e una pistola mitragliatrice, vedendo sfilare nelle pianure ucraine la Divisione Celere formata da uomini a cavallo con sciabola e moschetto, bersaglieri ciclisti e trasportati, artiglieria con pezzi da 76/27 e 47/32 e carri armati L. 40, i peggiori modelli della mediocre produzione italiana, pesanti 6,80 tonnellate, con un cannone-mitragliera da 20 mm e una mitragliatrice cal.8 mm sistemati in torretta, "del tutto sorpassato come peso, armamento e protezione".

Successivamente la divisione entrò a far parte dell'ARMIR (Armata Italiana in Russia) e i suoi reparti a cavallo passarono a disposizione del comando. La cavalleria italiana, i cui compiti furono così definiti dall'Enciclopedia militare: "Il combattimento a piedi non è più un mezzo accessorio di azione; ma bensì una imprescindibile necessità. Nelle guerre future la cavalleria dovrà ricorrere al fuoco di frequente sia per poter compiere il suo servizio di esplorazione che per poter efficacemente cooperare colle altre armi sui campi di battaglia", vivacchierà fra le due guerre arrovellandosi per la soluzione del dilemma potenza-velocità.

Da una parte si cercava di aumentare l'armamento di accompagnamento per una maggiore potenza di fuoco, dall'altra di conservare la grande velocità di scorrimento e di maneggevolezza, doti peculiari dell'Arma. Nello stesso tempo si chiedeva al cavalleggero di essere un ottimo cavaliere e un buon fante, cosa estremamente difficile per la durata e la complessità dell'addestramento del soldato a cavallo, con conseguente mediocrità nelle marce a piedi e nel tiro.

Illuminanti sono le parole di un ufficiale della cavalleria nazionalista, personaggio di “Per chi suona la campana” di Hemingway, al termine di un sanguinoso scontro con guerriglieri repubblicani risolto dall'aviazione. "Ma avremmo potuto sbrigare tutto, e quasi senza perdite, con un mortaio Stokes. Due muli per portare le bombe e un mulo con un mortaio da ogni lato della sella. Allora si che saremmo un esercito rispettabile. Con la capacità di fuoco di tutte queste armi automatiche. E un altro mulo, no, due muli per le armi automatiche. Smettila - disse a se stesso - lascia stare. Questo non è più uno squadrone di cavalleria, tu ti stai fabbricando un esercito. Tra poco pretenderai un cannone da montagna".

Ancora nel 1942, a un Promemoria per la costituzione della Divisione di Cavalleria, datata 18 agosto dell'Ufficio Addestramento dello Stato Maggiore, Raffaele Cadorna, comandante della Scuola di Applicazione di cavalleria di Pinerolo e futuro capo di stato maggiore dell'esercito (luglio 1945 - febbraio 1947), dopo aver tratteggiato negativamente le operazioni belliche dell'Arma: "La scacchiera greco-albanese era […] logorante per i cavalli; in Africa Settentrionale i cavalli metropolitani non sopportano il clima, sono troppo poco veloci”, concludeva raccomandando che la cavalleria conservasse i cavalli: "L'organico degli squadroni di cavalleria non deve essere inferiore ai 150 cavalli con l'attuale dotazione di armi".

Va ricordato che in Russia il Savoia Cavalleria in mille chilometri di marcia aveva perso 200 degli 800 cavalli in dotazione. Nessuno meglio di un oscuro sergente del Savoia Cavalleria, che finirà la sua breve vita nella anacronistica carica di Jsbuschenskij, tratteggia nel suo diario l'inanità dell'Arma montata: "Iniziata la marcia siamo sempre battuti in velocità nei confronti del nemico in fuga dai mezzi meccanizzati. Dove il nostro esercito ha un tempo di arresto dovuto alla resistenza dei Sovietici noi corriamo sotto a marce forzate; malgrado tutti gli sforzi giungiamo sempre a due giorni di distanza dal nemico.

Il secondo conflitto mondiale, al cui definitivo giudizio sono stati sottoposti armamenti e organizzazione, addestramento e capacità dell'Arma, seppellì per sempre la cavalleria montata.


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Articolo di Emilio Bonaiti pubblicato grazie all'autorizzazione dell'autore