Ci vogliono tre anni alla Marina per costruire una nave.
Ce ne vogliono trecento per ricostruire una reputazione.
Andrew Cunningham
Gli uomini combattono, non le navi.
Nelson
La dottrina strategica - I capi - Le navi da battaglia - Le azioni navali - La guerra dei convogli - I sommergibili - I mezzi d’assalto - La cooperazione aeronavale – Malta - La portaerei - La fine.
In questo lavoro si farà completa astrazione da luoghi comuni come sfortuna, valore, coraggio, ardimento, fede, abnegazione o eroismo, perché queste virtù furono appannaggio di tutti i marinai, i vivi e i morti, gli sconfitti e i vincitori che combatterono, con alterne fortune, i lunghi, sanguinosi anni della seconda Guerra Mondiale.
Il lettore di storia che scrive, scorrendo la memorialistica e la storiografia postbelliche molto spesso assolutorie e strappalacrime, molto spesso con il celato obiettivo di nascondere crude verità, si è chiesto perché in questo amatissimo Paese non è stato iniziato e portato avanti un sia pure doloroso processo alle cause della vergognosa sconfitta patita nel 1943. Si è chiesto perché, con attenuazioni, negazioni e rimozioni si è fatta cadere soltanto sul capo del governo dell’epoca, massimo ma non unico colpevole, che Benedetto Croce avrebbe chiamato “una testa di turco”, tutta e per intera la responsabilità della più grande tragedia dell’Italia contemporanea.
Cavagnari, Iachino, Riccardi, l’elenco sarebbe lungo, non furono chiamati a rispondere delle loro azioni in un paese nel quale il generale Ramorino nel 1849 fu il primo e unico generale condannato a morte e fucilato.
Il peccato originario del Paese è stato di non avere fatto i conti con le cause e gli autori della sconfitta del 1943.
Quando nel giugno 1940 il duce del fascismo, capo del governo, ministro degli Interni, degli Esteri, della Guerra, della Marina, dell’Aeronautica, delle Colonie, delle Corporazioni e dei Lavori Pubblici ruppe gli indugi e scese in campo, la situazione militare in Europa era risolta a favore della Germania che aveva sbaragliato, dopo quello polacco, norvegese, danese, belga e olandese, l’esercito francese e l’esercito britannico.
Sulla sua decisione va ricordato che lo storico marxista E. J. Hobsbawn nel suo Il secolo breve scriveva: “[…] concluse erroneamente ma non del tutto irragionevolmente che i Tedeschi avevano vinto”. Di certo l’Italia entrò in guerra, come già era avvenuto nella prima Guerra Mondiale, con la convinzione di un conflitto breve.
Se infatti la guerra fosse finita nel giugno 1940, Mussolini l’avrebbe vinta senza combattere, applicando uno dei principi di Sun Tzu: “Il miglior generale è colui che vince il nemico senza spargere sangue e senza spreco di risorse”.
Il Capo delle forze armate per delega di Vittorio Emanuele Terzo, Re d’Italia e d’Albania e Imperatore d’Etiopia, aveva dichiarato solennemente al Senato il 30 marzo 1938: “In Italia, comefu in Africa, [la guerra] sarà guidata agli ordini del Re da uno solo, da chi vi parla, se ancora una volta questo grave compito gli sarà destinato dal destino”.
La Regia Marina tra le tre Forze Armate era sicuramente quella meglio preparata al “supremo cimento” e quella i cui risultati furono i più scadenti. I programmi delle nuove costruzioni erano quasi completi, ma va ricordato che, come scrive de Gaulle: “Al capo militare le armi che dovrà maneggiare non sembrano mai né troppo affilate né troppo solide”.
Si evidenziò la mancanza di una visione strategica, di un’organizzazione interforze, di mezzi tecnici, radar ed ecogoniometri, di spirito d’iniziativa, con in più un’assoluta impreparazione alla guerra dei convogli. L’Aeronautica, battuta in partenza per la sua inferiorità tecnologica, diede tutto quello che aveva. L’Esercito, dopo i disastri iniziali, lottò ferocemente in Africa, sia pure supportato dall’AfrikaKorps, combattendo fino alla resa.
Per la struttura gerarchica creatasi, il Capo di Stato Maggiore aveva anche la carica di Sottosegretario alla Marina. Cavagnari ricoprì tale carica dal 7 novembre 1933 all’11 dicembre 1940, sostituito da Riccardi fino al 25 luglio 1943 e da De Courten fino al 3 gennaio 1945.
Il primo giugno 1940 nasceva Supermarina (Supremo Comando della Marina), vertice della gerarchia navale. Con il compito primario di promuovere e dirigere a livello strategico le operazioni belliche, aveva ai suoi ordini l’intero apparato della Marina. Fu definita “Il cervello che guidava la flotta”. In pratica Supermarina intervenne continuamente e pesantemente sulla condotta del comandante in mare, che, in teoria, decide da solo e autonomamente in base alla situazione cui si trova di fronte. Di fatto, invece, l'Ufficiale in comando era ridotto a un esecutore di ordini cui era affidata solo la parte tattica dell’azione.
Al contrario, nella flotta britannica lo spirito offensivo dei comandanti in mare era una costante, e ad esempio l'ammiraglio comandante della flotta nel Mediterraneo dirigeva le operazioni “sul posto”, muovendosi con larga autonomia da Londra.
Il capo di Supermarina era in pratica il Sottocapo di Stato Maggiore, nella cui carica si susseguirono gli ammiragli Somigli, Campioni e Sansonetti.
Secondo un antico costume i “cambi della guardia” si susseguirono anche nella Regia Aeronautica ove, nella conduzione dell’Arma, si alternarono Francesco Pricolo sino al novembre 1941, Rino Corso Fougier fino al luglio 1942 e Renato Sandalli fino all’8 Settembre. Il generale Giuseppe Santoro fu più fortunato: rimase Sottocapo di Stato Maggiore per tutta la durata del conflitto.
Nel Piano di Guerra del 31 marzo 1939, premesso che: “L’Italia non può rimanere assente, che la guerra sarà parallela a quella della Germania, che non è in grado di affrontare una guerra lunga e che bisogna fare in modo che il suo intervento determini la decisione”, il primo guerriero d’Italia disponeva: “Su terra difensiva assoluta (Alpi, Libia, Egeo) salvo operazioni secondarie dall’isolata Africa Orientale; progetti balcanici solo in caso di crollo interno jugoslavo; in cielo l’Aeronautica si sarebbe adeguata all’Esercito e alla Marina, sul mare offensiva su tutta la linea in Mediterraneo e fuori”.
Sull’offensiva navale Mussolini non aveva dubbi. Era confortato infatti dalle parole dell’ammiraglio Cavagnari, che in un discorso tenuto il 15 marzo 1938, a guerra lontana, aveva proclamato che la Marina era in grado di affrontare le più grandi marine del mondo.
Il primo marinaio torna sull’argomento davanti alla Camera il 10 maggio 1939-XVII e testualmente afferma: “Le esercitazioni di tiro e di lancio vengono, al presente, compiute con accorgimenti e modalità che riproducono il più esattamente possibile la realtà di guerra nelle sue multiformi varietà e difficoltà, nelle sue repentine variabilità, in tutte, insomma, le immaginabili situazioni in cui possono verificarsi gli scontri in mare con un nemico agguerrito”, sollevando: vivacissimi, prolungati, reiterati applausi nell’uditorio.
Il 29 maggio dello stesso anno, davanti al Senato, aggiunge: “Definisco soddisfacente la situazione attuale della Marina, e, poiché è mio costume far cauto uso degli aggettivi e promettere meno di quel che posso mantenere, il Senato può affidarsi al significato rigorosamente esatto diquesta mia definizione. Navi e armi non temono il confronto con le similari di qualunque altra Potenza navale”.
Nel Promemoria consegnato a Mussolini il 14 aprile 1940, il tono è molto diverso. L'Ammiraglio Cavagnari chiede che vanga interpretata e precisata la direttiva “Offensiva su tutta la linea”. Parla di: “Due ingenti complessi” riferendosi alle forze francesi e inglesi, aggiunge le forze turche e jugoslave; discute di situazione geografica: “a noi avversa”; auspica la: “conquista della Grecia”; sostiene: “Anche la guerra dei sommergibili potrebbe avere, in Mediterraneo, scarsi risultati”; lamenta la deficienza delle basi: “nel numero e nell’attrezzamento e nel naviglio silurante”; la scarsità dell’aviazione da ricognizione marittima, e come vaticinio finale, conclude: “Alla pace l’Italia potrebbe giungere non soltanto senza pegni territoriali, ma anche senza flotta e forse senza aeronautica”. In questo si sbagliava, poiché la Squadra Navale giunse alla fine della guerra nel pieno della sua efficienza.
Il 9 aprile Badoglio, in una riunione dei Capi di Stato Maggiore, gli era venuto incontro: “Circa l’azione a fondo della Marina, io dico che bisogna interpretarla nel senso di non gettarsi a testa bassa contro la flotta inglese e francese, ma di assumere una dislocazione, soprattutto con i sommergibili, atta a intralciare il traffico degli avversari”.
In data 29 maggio 1940 era emessa la prima direttiva Di.Na.0 (zero) divisa in tre parti: Ipotesi di guerra Alfa Uno, Apprezzamento della situazione, Concetti generali di azione da parte nostra nel Mediterraneo, senza nessun riferimento alla guerra nell’oceano Atlantico e in Africa Orientale.
Nella prima la direttiva valutava il “contegno” delle potenze minori nel Mediterraneo. Nella seconda la dislocazione delle forze inglesi e francesi che avrebbero attaccato gli: “Elementi mobili del dispositivo del Canale di Sicilia e il Possedimento dell’Egeo, bombardato Tobruch, le nostre basi, i centri costieri liguri e carboniferi sardi, Tripoli, città costiere della Sicilia e ricercato il combattimento contro nostre forze in condizioni favorevoli”.
Nella terza parte “Concetti generali di azione da parte nostra in Mediterraneo” si parlava di: “atteggiamento offensivo e controffensivo nello scacchiere centrale, difensivo negli altri, attività insidiosa contro le linee di comunicazione, cogliere e sfruttare a fondo ogni occasione di scontri parziali in condizioni di superiorità o parità di forze, evitando nello stesso tempo, di affrontare forze navali avversarie decisamente prevalenti”; e, in ultimo: “di impegnare appena possibile il grosso delle nostre forze navali (Squadra delle corazzate) con l’avversario, fino a che le sue forze in Mediterraneo non saranno state molto rafforzate e quando lo scontro possa avvenire più prossimo alle nostre basi che a quelle nemiche”.
Il 5 giugno Supermarina ordinava al Comando Piazza della Maddalena: “[…] di non prendere l’iniziativa di azioni di fuoco contro la vicina costa della Corsica, qualora fossero dichiarate le ostilità”.
Questa Direttiva fu a posteriori confortata da una Nota a firma di Badoglio diretta a Graziani, Cavagnari e Pricolo, Capi di Stato Maggiore delle tre Armi, datata 7 giugno 1940: “Tenere assoluto contegno difensivo verso Francia in terra e in aria. In mare: se si incontrano forze francesi miste a forze inglesi attaccare. Se solo francesi prendere norma del loro comportamento e non essere i primi ad attaccare. Per i sottomarini, se riesce loro a fare un buon colpo anonimo contro forze francesi lo facciano pure”.
Nasce così lo strano caso di un paese che dichiara la guerra senza farla.
Churchill era di diverso avviso. Il 28 maggio scriveva a Lord Ismay, Capo di Stato Maggiore Generale: “È importante che fin dagli inizi abbia luogo la collisione con la Marina e l’Aviazione italiana onde noi possiamo vedere quale sia realmente la loro consistenza e se siano cambiate dall’altra guerra. La strategia completamente difensiva contemplata dal Comandante supremo delle nostre forze nel Mediterraneo non è accettabile. A meno che non si scopra che lo spirito combattivo degli italiani è molto elevato, sarà meglio che la Flotta dislocata ad Alessandria esca e corra qualche rischio, anziché rimanere in una posizione così palesemente difensiva. Bisogna pur correre dei rischi in questa congiuntura su tutti gli scacchieri”.
Il 10 giugno 1940 nel Mediterraneo si fronteggiavano tre flotte in questo rapporto:
Italia | Gran Bretagna | Francia | |
Corazzate | 4 | 5 | 5 |
Portaerei | / | 2 | / |
Incrociatori Pesanti | 7 | / | 7 |
Incrociatori leggeri | 12 | 10 | 7 |
Cacciatorpediniere | 53 | 35 | 41 |
Torpediniere e avvisi | 71 | / | 16 |
Sommergibili | 115 | 12 | 42 |
All’inizio delle operazioni la Regia Marina schierava 2 squadre navali.
I Squadra Navale:
V Divisione navi da battaglia (corazzate Cavour e Cesare).
VII Squadriglia cacciatorpediniere (Freccia, Dardo, Saetta e Strale).
IX Divisione navi da battaglia (corazzate Vittorio Veneto e Littorio).
XIV Squadriglia cacciatorpediniere (Vivaldi, Da Nola, Pancaldo, Malocello).
XV Squadriglia cacciatorpediniere (Pigafetta, Zeno, Da Mosto, Da Verazzano).
I Divisione incrociatori pesanti (Zara, Pola, Fiume, Gorizia).
IX Squadriglia cacciatorpediniere (Alfieri, Oriani, Carducci, Gioberti).
IV Divisione incrociatori leggeri (Da Barbiano, Di Giussano, Diaz, Cadorna).
XII Squadriglia cacciatorpediniere (Lanciere, Carabiniere, Corazziere, Ascari).
VIII Divisione incrociatori leggeri (Duca degli Abruzzi, Garibaldi).
XVI Squadriglia cacciatorpediniere (Da Recco, Usodimare, Tarigo, Pessagno).
Era in formazione la VI Divisione navi da battaglia con le corazzate Duilio, entrata in squadra il 15 luglio 1940, e Doria, entrata in squadra il 26 ottobre 1940.
II squadra navale:
III Divisione incrociatori pesanti (Trieste, Trento, Bolzano).
XI Squadriglia cacciatorpediniere (Artigliere, Camicia Nera, Aviere, Geniere),
VII Divisione incrociatori leggeri (Duca d’Aosta, Attendolo, Eugenio di Savoia, Montecuccoli).
XIII Squadriglia cacciatorpediniere (Granatiere, Fuciliere, Bersagliere, Alpino).
II Divisione incrociatori leggeri (Bande Nere, Colleoni).
X Squadriglia cacciatorpediniere (Maestrale, Libeccio, Grecale, Scirocco).
Vi erano inoltre unità distanziate in altre basi:
Jonio e Basso Adriatico:
II Squadriglia cacciatorpediniere (Espero, Borea, Zeffiro, Ostro (a Taranto).
Cacciatorpediniere Riboty, Mirabello (a Brindisi).
Egeo:
IV Squadriglia cacciatorpediniere (Crispi, Sella).
Libia:
I Squadriglia cacciatorpediniere (Turbine, Aquilone, Euro, Nembo).
Africa Orientale:
V Squadriglia cacciatorpediniere (Tigre, Leone, Pantera).
III Squadriglia cacciatorpediniere (Nullo, Sauro, Manin, Battisti).
2 torpediniere, 2 cannoniere, una squadriglia MAS, un posamine, 8 sommergibili e varie unità ausiliare.
Le costruzioni navali italiane tra le due guerre erano fondate sul principio della velocità. A esso si sacrificava la protezione, ritenendo la velocità, come per i mezzi corazzati, la migliore difesa.
Va ricordato che secondo lo storico navale Santoni le corazzate Littorio e Vittorio Veneto all’atto dell’entrata in servizio, inizio estate 1940, erano le più moderne e potenti navi da battaglia del mondo. Va aggiunto che per il loro approntamento erano stati necessari quasi sei anni dalla data dell’impostazione.
La forza della Royal Navy nel Mediterraneo era divisa in tre basi: Alessandria, Gibilterra e Malta.
Nella prima era stanziata la XI Squadra: corazzate Warspite, Malaya, Ramillies, Royal Sovereign, la portaerei Eagle, la III Divisione: incrociatori Capetown, Caledon, Calypso, Delhi, la VII Divisione: incrociatori Orion, Neptune, Sidney, Liverpool, Gloucester, 21 cacciatorpediniere, 6 sommergibili.
A Gibilterra la corazzata Resolution, la portaerei Ark Royal, l’incrociatore Arethusa, 9 cacciatorpediniere.
A Malta un cacciatorpediniere, sei sommergibili.
La Warspite aveva partecipato alla battaglia dello Jutland del 1916, nella quale aveva incassato ventinove proietti di grosso calibro1, i suoi cannoni con una gittata di 25.000 metri erano all’altezza delle corazzate italiane. La Ramillies e la Royal Sovereign facevano parte della Classe R, nate nel 1913 e rimodernate nel 1930, quando il fattore aereo non era preso in considerazione. La Malaya soffriva di ricorrenti problemi ai condensatori che diminuendone improvvisamente la mediocre velocità, le impedirono la partecipazione allo scontro di Punta Stilo. La portaerei Eagle, ricavata dallo scafo di una nave da battaglia commissionata dal Cile nel 1918, era in grado di sviluppare meno di 23 nodi.
LE DOTTRINA STRATEGICA. I CAPI:
E la prima congettura che si fa del cervello di uno signore, è vedere gli uomini che lui ha d’intorno.
Machiavelli
La dottrina strategica della Regia Marina, maturata nel lungo intervallo tra le due guerre mondiali, era basata sulla difensiva attiva come: “Atteggiamento strategico più conveniente per una Marina inferiore, la quale intende disputare il dominio del mare al nemico senza rimanere inerte nei porti, ma senza d’altra parte affrontare una battaglia decisiva in condizioni ritenute disperate, tenendosi pronta ad approfittare di ogni occasione favorevole per attaccare il nemico in condizioni per noi favorevoli. […] La Marina non agisce più tenendo il mare, ma comparendo a tratti sul mare: ogni comparsa è caratterizzata da una puntata rapida e breve eseguita in massa”.
Suo principale propugnatore fu l’ammiraglio Giuseppe Fioravanzo, stimatissimo negli ambienti della Marina.
Lo statunitense Alfred T. Mahan, considerato il Clausewitz del mare, sosteneva invece: “Il principio fondamentale di tutta la guerra navale è che la difesa è assicurata solo dall’offesa”.
La strategia italiana, che si riassume nel concetto di “Fleet in being” attuata dalla Marina germanica nella Grande Guerra, fu la missione principale dei capi che si alternarono nella conduzione delle forze navali e portò alla conservazione di tutte le navi da battaglia, ad eccezione della corazzata Roma che, priva di sistemi di contromisure elettroniche, fu affondata con risibile facilità da un aereo dell’ex alleato, con la morte di 1.352 marinai.
Il genovese Domenico Cavagnari fu il capo indiscusso della Regia Marina dall’otto novembre 1933 quando fu nominato Sottosegretario di Stato e Capo di Stato Maggiore sotto la responsabilità nominale di Mussolini ministro della Marina.
Decorato di tre medaglie d’argento, promosso l’11 giugno 1936 Ammiraglio d’Armata per: “l’opera di preparazione e mobilitazione” della Regia Marina per la conquista dell’Impero, onorato con la nomina a Cavaliere di Gran Croce, decorato del Gran Cordone dell’Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro dal Re, sul cui yacht aveva prestato servizio in anni lontani, considerato un esperto in artiglieria, fautore delle “Grandi navi” e dei sommergibili, fu il principale responsabile della preparazione alla guerra nella quale la Regia Marina entrò con modernissime navi da battaglia e uno sterminato numero di sommergibili.
Avendo alle spalle una lunga carriera, volle fortemente la creazione di Supermarina “Comando Centrale per le operazioni militari marittime in tempo di guerra”.
Fu un errore dalle conseguenze devastanti la sottovalutazione del potere aereo e delle problematiche del traffico per l’Africa. Di fronte ai successi dell’aeronautica tedesca in Norvegia sostenne: “Ci risulta con certezza che provetti piloti germanici e alleati hanno di recente affermato e confermato le grandi difficoltà di colpire navi da guerra in manovra ad alta velocità”.
Altro suo principio basilare fu il deciso rifiuto della nave portaerei, ritenuta “una nave inutile”, facendo sua la tesi sostenuta da quasi tutti i capi della Regia Marina.
In due casi Cavagnari dà un saggio del suo pensiero.
Quando il 14 giugno 1940 forze francesi bombardano la zona tra Vado e Genova, fronteggiate dalla torpediniera Calatafimi, 4 MAS e batterie costiere, alla richiesta di Badoglio di: “dare il massimo concorso possibile alla difesa di importanti località della costa ligure-toscana” risponde con un netto rifiuto: “Il nemico potrebbe portare sulle coste sicule le offese che si vorrebbero evitare alle coste tirreniche”.
Il successivo primo agosto, invitato sempre da Badoglio a fiancheggiare dal mare l’avanzata delle forze terrestri verso l’Egitto, rifiuta: “Non ritengo comunque consigliabile l’impegno del nucleo principale delle nostre Forze Navali per fiancheggiare l’avanzata delle truppe. […] ma anche perché la zona in cui sarebbe prevedibile uno scontro con le Forze principali del nemico risulterebbe strategicamente del tutto vantaggiosa agli inglesi e svantaggiosa per noi”, indicando la distanza tra Marsa Matruch e Alessandria e Taranto.
Il 22 settembre 1940 Cavagnari espone alcune considerazioni sulla situazione strategica.
Insiste nel sostenere che: “Il solo atteggiamento prudenziale [delle Forze Navali] costituisce già un freno all’iniziativa avversaria”, ma scopre improvvisamente il peso delle portaerei e ritiene che la loro presenza consenta agli Inglesi di garantirsi da ogni sorpresa entro il raggio di 150 miglia. Alla luce degli avvenimenti che si vanno profilando, termina con inviti alla Regia Aeronautica di aumentare: “la dotazione di velivoli per l’attacco in picchiata” e, in stretta collaborazione con la Marina, creare: “Con organicità di criteri e in stretto accordo con la Marina la specialità aerosilurante, destinandovi personale adatto, il quale - ad eccezione dei piloti - non può essere fornito che dalla Marina”.
Sulla minaccia sempre incombente delle portaerei concorda Pricolo, Capo di Stato Maggiore della Regia Aeronautica, che ha ereditato un’Arma priva di “tuffatori” e di aerosiluranti. In una nota del 28 settembre ordina di astenersi dall’inviare forze aeree contro la flotta nemica: “Allorché risulta la presenza di navi portaerei, allo scopo di non sottoporle a perdite eccessive”.
La guerra è iniziata da tre mesi, anche la Regia Aeronautica “scopre” la portaerei.
Lo Stato Maggiore della Marina germanica “scopre” invece, in un “Apprezzamento della situazione del Mediterraneo” in data 14 novembre 1940, le capacità dell’alleato. Giudicato un: “grave errore” l’attacco alla Grecia e manifestato la certezza che l’Italia: “non effettuerà mai un’offensiva contro l’Egitto”, sostiene che: “Le Forze Armate italiane non hanno l’efficienza militare né sono comandate come occorrerebbe per concludere con la necessaria celerità e risolutezza le operazioni nello scacchiere mediterraneo. Attualmente ci sono anche scarse probabilità di un fortunato attacco italiano all’Egitto. Il comando italiano non è all’altezza del suo compito. Esso non vede chiaramente la situazione”.
Il 2 dicembre 1940 Cavagnari invia a Mussolini un Promemoria nel quale riconosce che l’eliminazione della Francia ha migliorato la situazione e che Malta aveva soltanto: “il carattere di un temporaneo punto di appoggio”. Aggiunge che all’inizio delle operazioni: “La capacità della nostra aviazione da ricognizione marittima di localizzare le forze navali nemiche, di determinarne le caratteristiche, di mantenere il contatto con esse portò quasi sempre alla condotta delle operazioni sul mare un apprezzato contributo, integrato dall’incessante e tenace azione del bombardamento aereo, che accompagnava i reparti nemici durante la maggior parte del loro cammino. A settembre arrivano altre forze inglesi che navigavano sempre accompagnate da una nave portaerei”. Ai primi di ottobre la situazione migliora con l’entrata in servizio delle Littorio e del Duilio, ma continua il “logorio” della nostra ricognizione e dei bombardieri. Lamenta poi che con la guerra di Grecia, da lui auspicata, gli Inglesi hanno la possibilità di usufruire di nuove basi, esclude che nella situazione attuale siano possibili sbarchi in grande stile a Malta per l’impossibilità della marina di proteggere, anche supponendo: “il primo sbarco felicemente effettuato”, il successivo sbarco di uomini e materiali.
A conclusione di questo sconsolante promemoria invita Mussolini a: “considerare il contributo che potrebbe essere richiesto alla potenza alleata”.
Scrive Andreas Hillgruber: “Riassumendo l’evoluzione della guerra nel Mediterraneo fino all’inizio del 1941, si può dire anzitutto che la Marina italiana era venuta a mancare come fattore di forza e che l’aviazione italiana non fu in grado di combattere efficacemente le forze navali britanniche.[…] Che in queste condizioni l'Italia non fosse capitolata già nell’inverno 1940-1941 […] è un fatto da attribuirsi esclusivamente alla decisione di Mussolini […] di chiedere l’aiuto tedesco in terra e nell’aria”3.
Tra gli ammiragli della Marina un peso particolare ebbe Angelo Iachino che, nel dopoguerra, si distinse per tutta una serie di pubblicazioni sugli eventi bellici cui aveva partecipato.
Dopo aver combattuto nella prima guerra mondiale al comando di siluranti, percorse una brillante carriera. Comandante dell’Accademia di Livorno, ammiraglio a 47 anni, il 9 dicembre 1940 sostituì l’ammiraglio Campioni nel comando in mare della flotta. Aveva contribuito alla caduta di Cavagnari attaccandone pubblicamente la condotta troppo timida della guerra indirizzandogli una nota nella quale sosteneva: “che almeno quando il rapporto di forze sia a nostro vantaggio, si possa affrontare il combattimento con piena fiducia nel successo”. In pratica non conseguì risultati migliori: comandante della flotta in mare nella tragica notte di Capo Matapan e nel bombardamento di Genova, Lucio Ceva, punto di riferimento per chi scrive, lo definisce: “valente ma sfortunato”.
È noto che a Napoleone piacevano i generali fortunati.
L’ammiraglio Campioni finì la sua vita davanti a un plotone di esecuzione.
Distintosi da tenente di vascello all’attacco dei Dardanelli nell’aprile 1912, partecipa al primo conflitto mondiale come comandante di cacciatorpediniere, guadagnandosi una Medaglia di Bronzo e una Croce al merito di guerra. Nel 1925 è addetto navale a Parigi. Prosegue in una rapida carriera, nel 1932 è contrammiraglio, nel 1934 ammiraglio di divisione, nel 1936 ammiraglio
di squadra. Sempre ben stimato da Cavagnari, era giudicato: “di grande severità e di rigido formalismo”. Nel 1939 è Sottocapo di Stato Maggiore e Senatore del Regno. All’inizio della guerra assume il comando della I Squadra e poi della flotta in mare. In tale qualità guida la Squadra Navale negli scontri di Punta Stilo e di Capo Teulada.
Nella motivazione della Commenda dell’Ordine Militare di Savoia che gli fu conferita si legge: “conducendola [la Squadra Navale] poi due volte contro il nemico a Punta Stilo e a Capo Teulada. In entrambi questi combattimenti ha dato prova di elevate qualità di capo, ottenendo successi di grande valore tattico ed etico contro forze preponderanti”.
Dopo questi “successi” è allontanato con la nomina a Governatore Generale dell’Egeo. All’8 Settembre, nel marasma generale determinato dalla mancanza di ordini, dopo due giorni di combattimento si arrende ed è internato in Polonia a Schokken.
I fascisti repubblicani hanno bisogno di vendette per il “tradimento” e, dopo un processo farsa, Campioni è fucilato all’alba del 24 maggio 1944 nel poligono di Parma.
LE NAVI DA BATTAGLIA. LE AZIONI NAVALI
“Le navi da guerra sono state create per andare al fuoco”.
Churchill
L’Italia era arrivata al 10 giugno 1940 con una Squadra Navale moderna ed efficiente in grado di svolgere la missione che la dottrina della Regia Marina le aveva assegnato.
Le navi da battaglia Conte di Cavour e della classe Cavour, impostate nel 1910, furono dal 1933 al 1937 completamente modificate dal generale Rotundi. Il tonnellaggio fu portato a 28.000 tonnellate e fu migliorata la protezione subacquea. L’armamento era composto da 10 cannoni da 320/44, 12 da 120/50, 8 antiaerei da 100/47, 8 mitragliatrici da 37/54 e 12 da 13,2, poi sostituite da 20/65. L’equipaggio era di 1261 uomini.
Le corazzate Andrea Doria e Duilio della classe Doria impostate nel 1912 furono a loro volta, sempre a opera del generale Rotundi, rimodernate dal 1937 al 1940. L’armamento era composto da 10 cannoni da 320/44, 12 da 135/45, 10 antiaerei da 90/50, 19 mitragliatrici da 37/54, 12 da 20/65, l’equipaggio era di 1500 uomini.
Il rimodernamento, che impegnò il 60% delle intere navi, sollevò una serie di critiche per l’alto costo. Tra le modifiche più impegnative vi fu la sostituzione completa dell’apparato motore, che portò la velocità da 21,5 a 26-27 nodi. Erano considerate: “Corazzate minori, con una velocità massima di 25 nodi atte a combattere contro la flotta francese”5.
Quando all’inizio degli anni Trenta la Germania costruì la nave da battaglia “tascabile” Deutschland, un capolavoro nel suo genere, con motori a propulsione Diesel tipo MAN invece dei tradizionali motori a combustione, la Francia si affrettò a impostare nel 1932 la Dunkerque e l’Italia nel 1934 le due corazzate e Vittorio Veneto della classe Littorio, progettate dal generale Pugliese, che entrarono in servizio nel 1940. Il dislocamento era di 43.835 tonnellate, l’armamento composto da 9 cannoni da 381/50, 12 da 152/55, 12 antiaerei da 90/50, 4 illuminanti da 120/40, 20 mitragliere da 37/54, 28 da 20/65. Le due navi con 1850 uomini di equipaggio avevano in dotazione 3 aerei da ricognizione.
Nel 1938 fu iniziata la costruzione di due nuove corazzate Impero e Roma, classe Roma, quasi identiche ai due Littorio. L’Impero, nome fatidico, fu abbandonato per mancanza di fondi, la Roma fu affondata, non in una battaglia contro la flotta inglese ma dall’ex alleato tedesco.
I Cavour parteciparono alla battaglia di Punta Stilo del 9 luglio 1940.
L’11 novembre 1940 a Taranto il Cavour fu colpito da un siluro aereo e la sua vita operativa finì. Si trasferì a Trieste per lavori di rimessa in efficienza, ancora in corso alla data dell’armistizio.
Il Giulio Cesare il 26 novembre dello stesso anno partecipò, senza sparare un colpo, alla battaglia di Capo Teulada. Colpito da bombe aeree a Napoli nel gennaio 1941, dovette rifugiarsi nel porto di Genova per raddobbi, partecipò all’inutile ricerca della flotta inglese che aveva bombardato Genova, alla prima battaglia della Sirte e alla fine del 1942 raggiunse Pola, dove fu trasformato in nave scuola. L’8 Settembre terminò la sua non gloriosa carriera, dopo una pausa sotto i cannoni inglesi di Malta, nella flotta sovietica. Affondò per l’urto contro una mina nell’ottobre 1955, si arrivò a farneticare che elementi dell’ex X MAS lo avessero minato.
I Doria parteciparono il 31 agosto del primo anno di guerra all’uscita della flotta da Taranto senza risultati, reiterarono l’uscita il 7 settembre.
Nella tragica “Notte di Taranto” il Duilio fu colpito da un siluro, trasferito a Genova, rientrò in servizio a fine giugno 1941, uscì sei volte per scortare naviglio mercantile e terminò la sua vita operativa a Malta.
Il Doria uscì in missione nel dicembre 1940 per intercettare la portaerei Illustrious, nel febbraio 1941 tentò di intercettare la Forza H, partecipò alla prima Battaglia della Sirte, alla scorta di convogli per l’Africa, e rimase poi a Taranto fino alla fine della guerra.
Nel giugno 1943 scriveva il Capo di Stato Maggiore ammiraglio Riccardi, in previsione di un attacco delle navi da battaglia, mai avvenuto, alla flotta d’invasione alleata: “Costituirebbero [I Doria] un appesantimento che menomerebbe gravemente quella manovrabilità che è l’unica carta sulla quale si può puntare nell’audace impresa”. Insiste il successivo 7 luglio, definendole nettamente inferiori alle navi da battaglia Warspite e Nelson: “possono solo contare su una maggiore velocità”.
Entrambi i Doria restarono all’Italia con il Trattato di pace.
Le corazzate della classe Littorio erano a Taranto nella tragica notte. Il Littorio fu colpito da tre siluri, portato all’incaglio per evitarne l’affondamento, rientrò in servizio nel marzo successivo. Nella prima battaglia della Sirte fece fuoco solo per alcuni minuti per il calar delle tenebre. Non partecipò ad altre azioni.
Il Vittorio Veneto partecipò a varie uscite in mare. Il 26 marzo 1941 in una puntata offensiva a sud di Creta sparò 94 proietti da 381 senza centrare i bersagli, poi, colpito da un siluro, ritornò alla base. Nell’agosto tentò di intercettare le forze impegnate nell’Operazione Mincemeat.
Scrive Fraccaroli: “L’uscita non condusse a un’azione tattica ma perfezionò l’addestramento e saggiò la cooperazione aeronavale”.
Nel dicembre 1941 durante un’azione, il Vittorio Veneto fu colpito da un siluro. Le due navi, cui si era aggiunta la nave da battaglia Roma, da poco entrata in servizio, furono danneggiate nelle loro basi da bombardamenti aerei.
La Grande Guerra per la Regia Marina era finita con esiti sconfortevoli. Scrive Oscar di Giamberardino: “Negli elementi più pensosi della Marina, nonostante la vittoria, c’era un senso di insoddisfazione per ciò che era avvenuto in guerra - era mancata la tanto attesa battaglia navale risolutiva, quella atta a scardinare la resistenza dell’avversario, a dare nuova luce alla gloria marittima nazionale […] Nessun ammiraglio italiano aveva meritato l’onore di una statua su di una colonna rostrata”.
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Nella guerra navale in Mediterraneo, il termine “Battaglia” per gli scontri avvenuti sembra eccessivo perché nella maggior parte si risolsero in un rapido scambio di colpi non prolungato nel tempo.
Il primo incontro tra la flotta inglese e la Regia Marina, che gli storici britannici chiamarono “Battle of Calabria” e quelli italiani “Battaglia di Punta Stilo” avvenne appunto nelle acque di Punta Stilo alle ore 13,15 del 9 luglio 1940.
La storia navale ufficiale britannica riserva a questo sconto 44 righe, quella italiana 60 pagine.
Per la prima volta la giovane flotta italiana si misurava contro la più famosa marina del mondo in condizioni di assoluta superiorità. Alle corazzate Giulio Cesare e Cavour si univano 6 incrociatori pesanti, 8 leggeri, 20 cacciatorpediniere. Avevano di fronte 3 navi da battaglia (Warspite, Malaya, Royal Sovereign) e , una portaerei con 19 velivoli, 5 incrociatori leggeri, 16 cacciatorpediniere.
Il potenziale offensivo delle artiglierie era da parte italiana composto da 20 cannoni da 320, 48 da 203, 56 da 152, e 108 da 120. Da parte britannica 24 cannoni da 381, 68 da 152, 64 da 120 escludendo i pezzi del menomato Gloucester che, ad opera della Regia Aeronautica, aveva incassato una bomba con la morte di 17 uomini compreso il comandante nella giornata precedente lo scontro.
Ne conseguiva che da parte inglese vi era prevalenza nel calibro delle artiglierie delle corazzate, da parte italiana nel numero e potenza di fuoco degli incrociatori e nella velocità di movimento delle corazzate.
L’ammiraglio Inigo Campioni, Comandante Superiore in Mare, con la quasi totalità della flotta scortava un convoglio di cinque navi mercantili partito da Napoli il 6 luglio e diretto a Bengasi, Cunningham riportava da Malta materiali e personale non necessario alla difesa dell’isola.
L’ammiraglio italiano, deciso a combattere, comunicò agli equipaggi: “Nel caso di avvicinamento di forze nemiche intendo agire con massima decisione contro di esse” ma Supermarina intervenne pesantemente: “Non, ripeto non, impegnatevi con gruppo corazzato nemico. Seguono istruzioni per la notte e per domani”.
Nell’azione nelle acque della Calabria il duello tra le navi da battaglia, le italiane con il sole alle spalle, durò sette minuti, la corazzata Giulio Cesare fu centrata da un 381 sul fumaiolo poppiero dalla Warspite: “Alla prodigiosa distanza di 13 miglia” scrive Cunningham, mentre Cernuschi aggiunge: “provocando un incendio che, al momento, sembrò avere gravi conseguenze” poiché causò, tra l’altro, nel giro di quattro minuti, la caduta della velocità da 25 a 18 nodi, sei minuti dopo fu colpito l’incrociatore pesante Bolzano da 3 proietti da 152 mm.
Posto che la corazzata gemella Cavour e i sei incrociatori pesanti in quel momento impegnati contro il nemico non potevano essere lasciati soli a fronteggiare la formazione avversaria, Campioni manovrò per aumentare le distanze preparandosi a combattere in ritirata e ordinando, contemporaneamente, ai propri cacciatorpediniere di: “stendere una cortina fumogena per proteggere l’inversione della direttrice di marcia e lanciare i siluri”. Cunningham sostenne di avere avvistato “poche scie di siluri” - in effetti i siluri furono lanciati da una distanza tra i 9 e i 14 chilometri - e che l’attacco dei cacciatorpediniere non fu “spinto a fondo”.
Il “tiro delle corazzate era della sola Warspite; la Malaya tentò di intervenire ma le 4 salve sparate caddero a due terzi dalla distanza tra le linee contrapposte, la Royal Sovereign fu esclusa dall’azione per la sua velocità “limitata a non più di 20 nodi”, scrive nel suo Rapporto l’ammiraglio inglese.
In pratica Campioni mise fine allo scontro, accostò verso ovest impartendo lo stesso ordine al Cavour.
La “battaglia”, iniziata alle ore 16,05 terminò alle ore 16,45.
Allo scontro non partecipò l’incrociatore Diaz che, per avarie in macchina, era dovuto rientrare a Messina. Gli Inglesi nell’inseguimento si spinsero sino a 25 miglia dalla costa per poi desistere, temendo di essere attratti in una trappola di sommergibili.
L’ammiraglio Campioni fu invitato da Supermarina a effettuare: “dopo tramonto” attacchi con cacciatorpediniere contro la Squadra inglese, ma rifiutò per: “la stanchezza degli equipaggi, […] mancanza di grande disponibilità di combustibile, assenza completa di dati”.
Si accertò per la prima volta la dispersione del tiro dovuto alla culla unica degli impianti binati, all’eccessiva tolleranza del peso delle cariche e alla variabilità del peso dei proietti. Il problema non fu mai risolto. Il fuoco italiano ebbe in genere […] risultati mediocri per cause tecniche, ma assai di più per l’errata impostazione dei criteri tattici e la conseguente preparazione di comandanti e direttori tecnici”.
La difesa antiaerea era stata negletta perché si ritenevano le corazzate indistruttibili ad azioni aeree. Cannoni e mitragliere erano insufficienti, come numero e calibro, che non superava i 100 mm, a tenere lontano gli attaccanti. I proietti, per il tipo di spoletta usata, di costruzione italiana, avevano la tendenza a scoppiare prima del raggiungimento della distanza stabilita e a frantumarsi in schegge troppo piccole per danneggiare seriamente i velivoli attaccanti. La migliore difesa restava sempre la manovra evasiva delle singole unità.
A titolo d’esempio va ricordato che i grossi calibri delle corazzate e incrociatori della Marina Imperiale giapponese avevano alti angoli di angolazione e quindi intervenivano a grandissima distanza con il fuoco di sbarramento.
Nel suo Rapporto del 18 settembre 1940 “Azione di Punta Stilo” Campioni affermò: “L’ammiraglio inglese disponeva di una netta preponderanza di navi maggiori […] la grande sproporzione che esisteva tra le unità maggiori nemiche e le nostre […] pur sapendo di essere in condizioni complessive di inferiorità decisi senz’altro di impegnarmi salvo a rompere i contatti nel momento in cui avessi giudicato troppo preponderante l’effetto dei grossi calibri inglesi”.
Fu il primo e unico scontro tra corazzate nella guerra mediterranea.
Supermarina vantò che erano state danneggiate il Warspite e il Gloucester, il secondo ad opera della Regia Aeronautica. Si aggiungevano: “Perforazioni e lacerazioni delle lamiere” per diversi cacciatorpediniere.
L’ammiraglio Bernotti così commentò lo scontro: “La flotta italiana aveva superiorità di incrociatori e di cacciatorpediniere, superiorità nel numero di navi e nella velocità. Questo vantaggio avrebbe potuto essere sfruttato assumendo l’iniziativa per dare all’azione una forma che offrisse possibilità vantaggiose”. L’ammiraglio tedesco Eberhard Weichold scrisse: ”È molto dubbio che si presenteranno condizioni altrettanto favorevoli per la Marina italiana”. Iachino: “Esito indeciso, ma comunque non fortunato”. Cavagnari in un articolo pubblicato nel 1947 su La Nuova Antologia: “Come quella successiva di Capo Teulada non fu certo ingloriosa poiché in nessuna delle due gli Inglesi poterono infliggerci danni maggiori di quelli che hanno ricevuto”.
Cunningham, nel rapporto all’Ammiragliato lamentò la pochezza delle navi di linea a disposizione: “Devo avere un’altra nave che possa sparare a grandi distanze”. Aggiunse: “Era stato stabilito un certo grado di superiorità morale a nostro vantaggio. […] Le azioni di bombardamento ad alta quota sono alquanto sterili e sono più allarmanti che pericolose. […] Ci si consolava pensando che c’era sempre più acqua che navi”.
La prova migliore di questo concetto fu l’attacco, senza conseguenze, che la flotta italiana dovette sostenere per tre ore sulla via del ritorno da bombardieri italiani, primo esempio della mancanza di comunicazioni tra aerei e navi. Su 133 aerei almeno una cinquantina lanciò bombe contro le navi che reagirono abbattendo un S.79.
S’ironizzò di una battaglia italo-italiana.
Lo scontro tra marinai e aviatori fu violento. Pricolo in una nota datata 23 agosto 1940 scrisse: “120 S.M. erano tempestivamente preparati e opportunamente armati pronti a partire da tutte le basi della Sicilia [...] pur tuttavia la nostra vigile attesa non fu minimamente orientata dai Comandi della Marina con i quali dovevamo operare”. Aggiunge: “È noto che il problema del reciproco riconoscimento durante la battaglia - terrestre, navale e aerea - rappresenta una altissima aspirazione fino ad oggi mai interamente realizzata”; finisce: “L’impiego dell’aviazione da bombardamento nel corso della battaglia navale debba essere limitato a quei pochi e definiti casi, nei quali la situazione sia talmente chiara da non consentire equivoci di sorta”.
La Malaya, inadatta a combattere contro la flotta italiana, fu relegata nell’Atlantico a scorta dei convogli.
Continua Cunningham: “Credo che sarebbe stato troppo aspettarsi che gli italiani rischiassero tutto in un combattimento ad oltranza. Tuttavia, se avessero regolato nel tempo gli attacchi con tutti i tipi di armi che adoperarono, ci avrebbero recato grave danno. Il colpo da 381 che essi ricevettero da parte della Warspite, produsse un effetto morale del tutto sproporzionato ai danni” e finì traendo insegnamenti dalla: “Necessità di serrare le distanze quando sia possibile per ottenere risultati decisivi”.
Campioni era di parere diverso: “In favorevoli condizioni il tiro può essere iniziato dalle massime distanze con probabilità di ottenere il colpo fortunato”.
Per Punta Stilo nel recto della medaglia commemorativa si legge: “Non si viene impunemente contro le coste italiane”.
A fine guerra il mancato intervento delle due nuovissime Littorio fu variamente commentato.
Supermarina era stata chiara: “Non uscire, ripeto non uscire”. Alcuni storici ritennero che le navi fossero ancora in fase di rodaggio e che mancavano cacciatorpediniere a Taranto per la scorta; altri che mancò la volontà. Iachino nel suo Tramonto di una grande marina sostiene: “Non c’era motivo di dubitare del suo giudizio” in merito alla richiesta dell’ammiraglio Bergamini, che Rocca definisce “uomo tutto di un pezzo”, di accendere le caldaie delle Littorio in attesa dell’ordine
di salpare da lui richiesto. L’ammiraglio Cocchia, che aveva comandato i sommergibili italiani in Atlantico, fu più problematico: “L’Alto Comando della Marina si regolò con Bergamini secondo la logica e il buon senso, ma in guerra logica e buon senso sono poi sempre i migliori consiglieri?”. L’ammiraglio Fioravanzo fu più diplomatico: “Vennero tenute alla mano per il caso che fosse proprio indispensabile l’apporto della loro potenzialità bellica, sia pure non ancora del tutto conseguita”.
Il Capo di Stato Maggiore della Regia Aeronautica nel suo La Regia Aeronautica 1939-1941, edito nel 1971, descrive una penosa scena tra Mussolini e l’ammiraglio Somigli: “Pochi giorni dopo la fine della battaglia ebbi l’occasione di assistere a un concitato colloquio tra Mussolini e l’ammiraglio Somigli. Questi tentava di spiegare i motivi del rapido ripiegamento delle nostre navi con la presenza di cannoni da 381 contro i nostri da 320; ma Mussolini, visibilmente indignato, non ne rimase affatto convinto e domandò bruscamente: - Ma quando avremo le nuove navi combatteremo o no contro la flotta inglese? -. L’ammiraglio Somigli: - Certamente duce: anzi allora andremo dinanzi ad Alessandria a provocare e a indurre al combattimento la flotta inglese -. Probabile che in quel momento Somigli fosse in buona fede, benché esprimesse concetti in contrasto con le istruzioni del comando supremo”.
Il pensiero corre a uomini come Hitler, Stalin o Churchill nelle stesse circostanze.
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Gli incrociatori Bande Nere e Colleoni della II Divisione, incrociatori leggeri agli ordini dell’ammiraglio Ferdinando Casardi, a metà luglio 1940 furono allertati per un bombardamento a Sollum e una successiva puntata nell’Egeo contro il traffico italiano. Supermarina impartì ordini molto dettagliati specificando rotte, tempi e velocità da tenere.
Sfumata l’azione a Sollum, in navigazione verso l’Egeo le navi affrontarono una formazione di 4 cacciatorpediniere, che tenne loro testa, supportata a distanza da un incrociatore leggero e un caccia. Il comandante italiano, lanciatosi risolutamente all’attacco, ignaro della presenza dell’incrociatore e dell’altro cacciatorpediniere, fu fronteggiato da tutta la formazione. Prima il Bande Nere lievemente e poi il Colleoni in modo più grave furono colpiti. L’ammiraglio Casardi, a bordo del Bande Nere, ordinò il disimpegno, mentre il Colleoni affondava. Così finì lo scontro al largo di Capo Spada (Creta).
Questi incrociatori, classe Condottieri, erano stati concepiti per la lotta contro i cacciatorpediniere grazie alla loro velocità di 35 nodi, pari a quella dei cacciatorpediniere, e al loro armamento superiore.
Si lamentò anche, sarebbe stata una costante per l’avvenire, il mancato intervento della nostra Aeronautica.
Casardi fu promosso al comando della VII Divisione cacciatorpediniere, formazione più prestigiosa della Seconda incrociatori leggeri.
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Il 12 ottobre si ebbe un rapidissimo combattimento tra la XI Squadriglia cacciatorpediniere (Artigliere, Aviere, Geniere e Camicia Nera) e la I Squadriglia torpediniere (Airone, Alcione e Ariel) contro la VII Divisione incrociatori (Ajax, Orion, Sidney). Le navi italiane erano già state localizzate dal radar dell’Aiax, per la prima volta in azione nel Mediterraneo. Lo scontro fu violentissimo, gli Italiani andarono all’attacco, ma la superiorità nemica era schiacciante. L’Artigliere e le torpediniere Ariel e Airone, su cui morì un congiunto di chi scrive, sottufficiale padre di quattro figli, furono affondati, dopo aver inflitto danni.
L'impreparazione al combattimento notturno e la mancanza di appoggio da parte di incrociatori portò a questa sconfitta.
Supermarina fu subito a conoscenza del messaggio lanciato dall’Airone all’inizio dello scontro e circa sei ore dopo ordinò alla III Divisione incrociatori pesanti di uscire da Messina, ma ormai era troppo tardi.
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Quella che passerà alla storia come “La notte di Taranto” fu preceduta da un’intensa attività addestrativa da parte di aerosiluranti e bombardieri inglesi.
Va ricordato che la Marina inglese da lungo tempo curava la specialità degli aerosiluranti.
Cunningham aveva ora a disposizione, oltre alla portaerei Eagle, la più moderna Illustrious, e stabilì un piano d’azione che coinvolgeva la Mediterranean Fleet e la Forza H di Gibilterra.
L’azione era complessa, da Gibilterra una formazione doveva spingersi nel Mediterraneo e bombardare Cagliari, da Alessandria un’altra doveva proteggere convogli provenienti o diretti a Malta e attaccare il traffico per l’Albania, il tutto per disorientare il Comando Navale italiano sull’obiettivo scelto. All’ultimo momento l’Eagle fu indisponibile e gli aerosiluranti, i vetusti biplani Fairey Swordfish, di cui si scrisse: “potevano volare di conserva ai piroscafi mercantili che dovevano silurare”, vennero ridotti a 20.
L’11 novembre 1940 tutte le nostre corazzate erano ormeggiate a Taranto nel Mar Grande, difese da 101 cannoni e 193 mitragliatrici, materiale non del tutto moderno ma efficiente e da costruzioni retali profonde 10 metri, di cui solo una parte era stata sistemata.
Va subito chiarito che, anche con una completa recinzione, il risultato non sarebbe cambiato perché i siluri erano graduati per passare a una profondità di metri 10,60.
Il Comando italiano aveva la certezza che un eventuale attacco sarebbe stato operato da bombardieri in quota, perché le possibilità di azione degli aerosiluranti erano sconosciute a una marina che aveva rifiutato le portaerei.
Il Comando inglese, per la prima volta nella storia, ne darà una piena dimostrazione.
Alle 22,25, segnalati aerei in arrivo, fu aperto il fuoco; alle 23 il porto era completamente illuminato dai bengala. Mentre gli Swordfish armati di bomba attaccavano, improvvisamente gli aerosiluranti, arrivati a motore spento, lanciarono i loro siluri, secondo lo storico Giorgerini: “alla distanza di 350-1.000 m dai bersagli e alla strabiliante quota di 9, dico 9 metri”.
Alle ore 01,22 fu dato il cessato allarme.
La tragedia, perché di tragedia si deve parlare, era sotto gli occhi di tutti.
5 siluri su 11 lanciati erano andati a segno.
Il Cavour e il Duilio incassarono un siluro ciascuno, il Littorio, orgoglio della nostra Marina, 3. Dei restanti sei, due passarono sotto il Littorio, due scoppiarono a prora del Doria, uno mancò l’incrociatore Garibaldi, l’ultimo fu rinvenuto inesploso.
I bombardieri a loro volta centrarono l’incrociatore Trento, mentre sul cacciatorpediniere Libeccio la bomba non esplose.
Le perdite nemiche furono di due aerei.
Cunningham affermò: “La Marina aveva nell’aviazione navale la sua arma più moderna”.
Aveva trascorso gran parte della sua carriera nel Mediterraneo. Nel 1932 aveva comandato la flotta dei cacciatorpediniere, dopo brevi incarichi all’Ammiragliato era tornato nel “suo” mare il 19 maggio 1939 come comandante in capo della Mediterranean Fleet.
Alla Camera dei Comuni, Churchill il 12 novembre definì Taranto: “Un colpo paralizzante”.
Commentò l’ammiraglio Bernotti: “[…] il disastro subito dalla Marina italiana fu dovuto al fatto che questa Marina era stata portata alla guerra contro la Gran Bretagna senza che le fosse consentito di sviluppare l’arma più potente”. Per opera di chi non fu specificato.
Nello stesso tempo la VII Divisione inglese, penetrata nel canale di Otranto, affondò quattro mercantili italiani carichi di truppe, nonostante la lotta intrapresa dall'antiquata torpediniera Fabrizi, comandata da un tenente di vascello di complemento il cui nome, Giovanni Barbini, va ricordato per il suo valore. Dopo aver aperto il fuoco con i modesti pezzi in dotazione, non riuscendo a lanciare i siluri perché danneggiati dal fuoco nemico, si diresse verso banchi di mine presso Valona nella speranza di trascinarsi dietro navi nemiche. L’incrociatore ausiliario Ramb III invece abbandonò il convoglio rifugiandosi a Bari.
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Lo scontro di Capo Teulada, sito all’estremità meridionale della Sardegna, iniziò a seguito dell’Operazione Collar con la quale la Marina britannica inviava a Malta, a Cipro e in Grecia aerei, materiali e rifornimenti.
Ricevuta la notizia la mattina del 25 novembre, Supermarina mise in allarme la Squadra Navale composta dal Vittorio Veneto e dal Giulio Cesare, 6 incrociatori pesanti affidati a Iachino e 16 cacciatorpediniere, che prese il mare la mattina successiva al comando di Campioni con l’ordine di impegnarsi: “qualora la situazione sia favorevole”. Il 27 novembre lo scontro fu breve e inconcludente. Restò danneggiato l’incrociatore pesante inglese Berwick e il cacciatorpediniere Lanciere, che fu rimorchiato a Cagliari. Ancora una volta la flotta inglese rimase padrona del campo nonostante la superiorità navale italiana. Ancora una volta le comunicazioni tra Regia Marina e Regia Aeronautica furono insufficienti.
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Il 31 gennaio 1941, la Forza H di Gibilterra con la corazzata Malaya, gli incrociatori Renown e Sheffield, la portaerei Ark Royal e 10 cacciatorpediniere attaccò la diga del Tirso in Sardegna senza risultati e, per le condizioni del tempo, ritornò a Gibilterra, senza spingersi su Genova.
Quando l’Intelligence segnalò un incontro tra il duce e Franco il 10 febbraio a Bordighera, Sommerville ebbe l’ordine di ripartire subito per l’attacco a Genova. Il 6 febbraio la Forza H salpava, “Operazione Grog”, scortata da 4 cacciatorpediniere, cui si aggiunsero altri 6. Obiettivo: cannoneggiamento di Genova, attacco alla raffineria di Livorno e al porto della Spezia.
La partenza fu segnalata con la solita precisione da informatori italiani, nessun aereo italo tedesco avvistò il nemico.
La Squadra Navale fu allertata e si dispose in un dispositivo di ricerca, incrociando all’altezza dell’Asinara e attendendo l’esito della ricognizione aerea. Erroneamente si pensava alla ripetizione dell’attacco alla diga sarda.
Per ingannare gli Italiani, 2 cacciatorpediniere si allontanarono e, tra Minorca e la Sardegna, lanciarono messaggi radio a scopo diversivo, che però non furono raccolti. All’alba del 9 febbraio la portaerei Ark Royal e 3 cacciatorpediniere si diressero, dopo una serie di finte, verso Livorno e La Spezia. Alle ore 8,14 di domenica 9 febbraio una Genova addormentata fu presa sotto il fuoco da una distanza minima di 16.000 metri. Le batterie costiere da 381, 190 e 152 risposero con un fuoco intermittente definito dagli Inglesi: “del tutto inefficace”, tanto che fu sospeso l’ordine di stendere una cortina fumogena.
Il Renown sparò 125 granate da 381 e 400 da 114, la Malaya 148 granate da 381, lo Sheffield 782 granate da 152 mm.
Alle 8,45 il fuoco cessò. Anche gli attacchi a Livorno e alla Spezia raggiunsero l’obiettivo. La Squadra tornò a Gibilterra senza incrociare la Squadra italiana che, nel frattempo, navigando alla cieca, raggiunse un convoglio sul quale si apprestava ad aprire il fuoco, rinunciandovi scoprendo che si trattava di navi mercantili francesi.
Secondo il Bollettino n.248 del 10 febbraio 1941, i morti furono 72 e 226 i feriti.
Sommerville dichiarò nel suo rapporto che le forze italiane: “avevano trascurato ogni misura precauzionale nei confronti di incursioni della Forza H nel Golfo di Genova”.
Il 13 febbraio Iachino presentò la sua relazione: “[…] durante tutto il giorno le comunicazioni sulla posizione e sui movimenti del nemico sono state scarsissime, imprecise e aggravate da grandi ritardi. […] Dato che i primi colpi di grosso calibro sono stati sparati su Genova alle 8,15, se la comunicazione del bombardamento fosse stata fatta, come prescritto, col segnale rt. all’aria, essa avrebbe potuto essere intercettata dal Comando Squadra al più tardi alle 8,30. L’anticipo di un’ora e mezzo nell’arrivo di tale comunicazione avrebbe non solo permesso alla Squadra di guadagnare una trentina di miglia verso Nord, ma avrebbe evitato l’inutile invio di due degli aerei imbarcati a esplorare una zona in cui ormai il nemico non era certamente più […].”
Nella relazione si parla di ”eccezionale fortuna […]”.
Segue l’elogio di Supermarina al Comandante Superiore in mare: “[…] per il modo in cui aveva regolato i movimenti della squadra”.
Richiesto dal Comando Supremo, Ricciardi (si legge nel Diario di Ciano che: “deve il suo posto alla protezione della signora Petacci”) giustificò il disastro con tre motivazioni: Persistenti avverse condizioni atmosferiche, errore della vigilanza foranea nell’avere identificato navi nemiche come amiche, mancata trasmissione dei vari avvistamenti.
Il 19 febbraio Pricolo, Capo di Stato Maggiore della Regia Aeronautica, tuona: “Prova d’impreparazione, con conseguenti risultati scadentissimi” e minaccia punizioni.
Nel dopoguerra l’ammiraglio Iachino, che era succeduto a Campioni nel comando della Squadra Navale, commenta: “Fa meraviglia l’audacia, direi l’imprudenza con cui egli [l’ammiraglio inglese] si avventurò con le sue navi ben addentro a un bacino circondato da coste nemiche durante una chiara notte lunare fidando solo sulla possibilità del radar che era sullo Sheffield”.
Causticamente lo storico Giorgio Giorgerini osserva: “[…] viene però da pensare, stando al suo giudizio, che se fosse dipeso da lui avrebbe inviato Sommerville davanti a un tribunale militare o a una corte marziale”7.
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Nel febbraio 1941 a Merano si incontrarono per la prima volta i comandanti della Marina tedesca Reader e della Marina italiana Riccardi, che era succeduto a Cavagnari.
Reader insistette per una più incisiva partecipazione della Regia Marina alle missioni offensive nel Mediterraneo Orientale, ma il rifiuto fu netto, giustificato dal rapporto sfavorevole delle forze - il Littorio era ancora ai lavori - e dalla mancanza di nafta. Quando le pressioni aumentarono, Supermarina preparò un piano per attaccare il traffico sulla rotta Alessandria Grecia.
Il 23 marzo 1941 scatta l’ordine d’operazione di cui gli Inglesi vennero immediatamente a conoscenza con Ultra e Cunningham, messa in allarme la flotta, sospende il traffico mercantile e dispone una serie di ricognizioni.
Alle ore 21 del 26 marzo Iachino esce da Napoli con il Vittorio Veneto, su cui è imbarcato un gruppo crittografico per l’immediata decrittazione dei messaggi e un gruppo della Luftwaffe specializzato in telecomunicazioni. Da Brindisi salpa l’VIII Divisione incrociatori, da Taranto la I, da Messina la III, tutte scortate da cacciatorpediniere. L’Aeronautica dell’Egeo comunica che non sarà in grado di inviare aerei in volo.
Iachino precisa nell’ordine di operazione emanato il giorno successivo che: “in caso di avvistamento di unità di guerra nemiche, queste saranno attaccate a fondo soltanto se in condizioni favorevoli di relatività di forze”.
Supermarina, su suggerimento del Comando Supremo, invita Iachino a limitare la missione alla puntata a sud di Creta e a rinunciare a quella in Egeo,
Al tramonto del giorno 27, Cunningham, che per tutto il pomeriggio aveva giocato a golf per ingannare eventuali spie, ordina la partenza della Squadra. 3 navi da battaglia, 9 cacciatorpediniere, una portaerei salpano le ancore, ma la Warspite, deve ridurre la velocità per un guasto e a questa velocità si deve allineare la Squadra.
Inizia uno sconto tra una squadra di incrociatori partiti dal Pireo e l’italiana III Divisione incrociatori. Interviene col grosso della flotta Iachino, apre il fuoco, 542 granate da 203 mm e 94 da 381 non raggiungono gli incrociatori nemici.
Santoni, nel suo “La battaglia di Matapan” osserva che la tedesca Bismarck con 93 proietti da 381 mm affondò l’incrociatore da battaglia Hood, la più grande unità della Royal Navy e mise in fuga, colpendola 4 volte la modernissima corazzata Prince of Wales.
Dopo un attacco di 6 aerosiluranti Albacore andato a vuoto, Iachino ordina il rientro alle basi. Cunningham ricorre all’aeronautica. Bombardieri e aerosiluranti attaccano contemporaneamente, il Vittorio Veneto è colpito da un siluro all’altezza dell’elica esterna di sinistra, imbarca 4.000 tonnellate di acqua ma dopo pochi minuti si rimette in moto a velocità ridotta, che lentamente aumenta a 19 nodi. A metà pomeriggio del giorno 28 la flotta torna a casa su cinque colonne, senza protezione aerea. Dieci aerosiluranti, tra cui 4 Swordfish, la tallonano e al tramonto entrano in azione.
L’ultimo siluro centra l’incrociatore Pola a poppa. Il colpo è gravissimo, gli impianti elettrici vanno in tilt, la nave è bloccata, mentre la Squadra si allontana nel buio.
Iachino accerta da una comunicazione di Supermarina che la flotta inglese gli è vicina, ha la sua nave azzoppata ma non vuole abbandonare il Pola e impartisce l’ordine fatale: “I Divisione vada soccorso Pola” all’ammiraglio Cattaneo il quale, con gli incrociatori Zara e Fiume e i 4 cacciatorpediniere della IX squadriglia, inverte la rotta.
Cattaneo voleva destinare all’operazione soltanto due cacciatorpediniere, ma l’ordine è perentorio. Commenta l’ordine superiore con le parole: “È un guaio”, racconta il suo aiutante di bandiera, scampato al macello.
L’ammiraglio assume una formazione contraria alle norme vigenti con i due incrociatori che precedono i cacciatorpediniere e si muove a una velocità non spinta al massimo, come se aspettasse un contrordine.
Improvvisamente, da un cacciatorpediniere inglese, con i binocoli in dotazione, le vedette segnalano “Navi in avvicinamento”: sono le navi di Cattaneo. Si scatena l’inferno: da due a tremila metri inizia la caccia al piccione, un uragano di fuoco annienta la I Divisione che non reagisce perché la dottrina non prevedeva il combattimento notturno e, di conseguenza, i cannoni principali sono disposti per chiglia, ossia paralleli all’asse della nave. Sfuggono miracolosamente due cacciatorpediniere l’Oriani e il Gioberti. L’Alfieri apre il fuoco e lancia vanamente siluri, il Carducci tenta di stendere cortine fumogene a protezione degli incrociatori prima di inabissarsi. La Warspite, la Valiant e la Barham scaricano cento colpi da 381 in pochi minuti.
La Squadra inglese “scopre” l’immobile Pola. Vengono trasbordati 250 marinai sul cacciatorpediniere Jervis e la nave riceve il colpo di grazia con un siluro.
Un ammiraglio e 2.303 marinai, 3 incrociatori e 2 cacciatorpediniere scompaiono in mare nella notte di Capo Matapan.
Gli Inglesi perdono i due piloti di un aerosilurante abbattuto.
Si accertò la fallacità del principio: “di notte non ci si vede”.
Fu la più grave sconfitta per mare della seconda Guerra Mondiale.
Il Bollettino di Guerra Numero 297 del 31 marzo comunica la perdita di: ”Tre incrociatori di medio tonnellaggio e due caccia. Molti uomini degli equipaggi sono stati salvati. Sono state inflitte al nemico perdite non ancora completamente precisate, ma certamente gravi. Un grosso incrociatore inglese ha avuto in pieno una bordata dei nostri massimi calibri ed è affondato”.
Il duce volle ricevere gli sconfitti ammiragli a Palazzo Venezia. Al termine dell’incontro annunciò: “È necessario che le forze navali in mare siano sempre accompagnate da almeno una nave portaerei. Il problema è già stato posto allo studio. Ho dato ordine al mio Capo di Stato Maggiore Generale di provvedere subito a fare costruire una nave portaerei, e sono sicuro che l’avremo presto, probabilmente in un anno”. Poi, rivolto a Iachino: ”Ritornate alle vostre navi ammiraglio, conto presto su una vostra rivincita”9.
L’ammiraglio Iachino resta al suo posto.
Viene alla mentre l’ammiraglio Sommerville, messo sotto inchiesta: “per non aver dimostrato sufficiente aggressività in uno scontro con la Marina italiana” e poi assolto
Nel 1756 L’ammiraglio britannico John Byng venne fucilato per non aver distrutto una forza navale francese al largo di Minorca, violando l’articolo XII del codice di guerra: “Chiunque nella flotta, per codardia, negligenza o disinteresse […] non farà il possibile per catturare o distruggere ogni nave che sarà suo dovere impegnare in combattimento […] giudicato colpevole da una sentenza della corte marziale, subirà la pena di morte”. Voltaire commentò: “In questo paese giudicano opportuno uccidere ogni tanto un ammiraglio per incoraggiare gli altri”.
Nel dopoguerra Matapan diede luogo a una serie infinita di querelles.
In primis furono aspramente contestate le disposizioni impartite da Iachino, sembrando inutile l’invio di una intera divisione in soccorso di un’unità. Specialmente ad opera di movimenti di estrema Destra, si parlò di tradimento per la conoscenza dei piani da parte nemica, che agì quasi a colpo sicuro.
Alberto Santoni nel 1981, col suo Il vero traditore: il ruolo documentato di Ultra nella guerra del Mediterraneo, fugò tutti i dubbi, maturati nel tempo anche ad opera di libri come Navi e poltrone e Settembre nero di Trizzino.
Santoni parla di “alcune circostanze fino a ora incomprensibili”, che si spiegano con l’efficientissimo Servizio Crittografico Ultra di Bletchley Park.
Sull’operato del comandante della flotta in mare va detto che l’esito, purtroppo negativo, della decisione influì certamente sui giudizi a posteriori. Iachino dovette prendere una decisione in pochi minuti e non ebbe la risolutezza di abbandonare una nave o di farla proteggere da due soli cacciatorpediniere.
Gli Inglesi si confermano nel sea control del Mediterraneo, i Tedeschi commentano: “[…] completa incapacità della Marina italiana in fatto di esecuzione tattica, padronanza del comando di formazioni navali e di singole navi e preparazione nell’uso delle armi”,
Il vecchio uomo che scrive pensa a quei ragazzi in fondo al mare, per sempre.
Quando la flotta inglese, 7 incrociatori e una ventina di cacciatorpediniere, è duramente impegnata nelle operazioni di reimbarco dei reparti dalla Grecia e da Creta, riportando perdite gravissime ad opera della Luftwaffe, la Regia Marina rifiuta di partecipare alle operazioni, limitandosi a fornire una magra scorta alle flottiglie di piccole imbarcazioni con cui i Tedeschi portano rinforzi a Creta.
A giustificazione si evidenzia che all’epoca solo le navi da battaglia Giulio Cesare e Doria erano in linea. Cunningham commentò: “Siamo molto obbligati verso la flotta italiana per la sua inerzia. Se ella avesse voluto interferire, l’Operazione Demon sarebbe stata assai rallentata. e, nella peggiore delle ipotesi, avrebbe potuto venir addirittura interrotta”.
Bernotti ebbe parole amare: “La decisione del 17 maggio fu sostanzialmente una negazione della strategia: non furono comprese le possibilità del momento”.
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Nel corso di una scorta a un convoglio diretto in Libia, la Squadra Navale composta dalle corazzate Littorio, Doria e Cesare s'imbatté in un gruppo navale inglese che scortava una petroliera per Malta. Lo scontro, passato alla storia come la Prima Battaglia della Sirte, fu breve e inconsistente. Le corazzate spararono da circa 32.000 metri, gli Inglesi, 6 incrociatori leggeri e 16 cacciatorpediniere, messo in salvo il piroscafo, simularono un attacco e tagliano la corda. Sulla rotta di ritorno entrarono in collisione i cacciatorpediniere Granatiere e Corazziere che si asportano reciprocamente la prua.
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Quella che passerà alla storia come la Seconda Battaglia della Sirte si svolse nel periodo in cui la Forza H aveva inviato le sue migliori unità in Asia per contrastare l’avanzata giapponese, la Home Fleet era impegnata nella scorta ai convogli per l’Unione Sovietica, e la Mediterranean Fleet aveva subito la distruzione della Forza K sui campi di mine, il danneggiamento della Valiant e della Queen Elisabeth ad opera della X MAS e della portaerei Formidable ad opera dell’aeronautica tedesca.
Il 20 marzo 1942 la situazione di Malta stava diventando sempre più disperata e la necessità di rifornimenti era impellente. Per scortare tre piroscafi l’ammiraglio Vian prese il mare con 3 incrociatori leggeri e 4 cacciatorpediniere, mentre 7 altri cacciatorpediniere erano partiti il giorno precedente. Da Gibilterra fu attuata la solita finta con partenza della Squadra e lancio di aerei per Malta.
Ad Alessandria vi erano soltanto incrociatori leggeri e cacciatorpediniere: la superiorità della Regia Marina era schiacciante.
La flotta italiana, protetta una volta tanto dall’Aeronautica nazionale e tedesca, salpa da Taranto con la Littorio e i cacciatorpediniere Aviere, Grecale, Oriani e Ascari dell’XI Squadriglia. La scorta aerea è costituita da 12 aerei bombardieri Cant Z 1007 di cui solo 6 raggiungono le navi per le condizioni atmosferiche che stanno precipitando. Da Messina, superando difficoltà per il forte vento, salpa la III Divisione composta da 2 incrociatori pesanti e uno leggero, a cui si aggiungono 4 cacciatorpediniere agli ordini dell’ammiraglio Parona.
Vian fu subito informato della situazione, ma continuò nella sua rotta fidando nella certezza che la flotta italiana di notte non combatteva. Aveva inoltre curato con particolare attenzione l’addestramento dei suoi cacciatorpediniere alla copertura con cortine fumogeni
Il Gorizia fu il primo ad avvistare la Squadra inglese alla distanza di 23.000 metri e, unitamente agli altri incrociatori, su ordine di Iachino che specificava: “senza impegnarsi decisamente e comunicando notizie”, aumentava la velocità a 30 nodi,
La distanza tra le due formazioni scese a 19.000 metri e fu aperto il fuoco. Parona ripiegò verso Nord per portare la Squadra inglese sotto i cannoni del Littorio, mentre il mare continuava a peggiorare.
La manovra di Parona, che nella sua relazione affermò: “per obbedire all’ordine ricevuto”, di essersi impegnato col nemico senza spingere l’azione a fondo, per poi ritirarsi per portarlo sotto i cannoni del Littorio, fu particolarmente criticata da Iachino, il quale negò recisamente di aver trasmesso quell’ordine. In seguito anche Supermarina criticò Parona che, ripiegando verso il Littorio, aveva concesso un’ora di tempo al convoglio.
Vian non aveva portaerei, corazzate, incrociatori pesanti e aerei, mentre velivoli nazionali e tedeschi attaccavano in continuità il convoglio mercantile.
Intanto il Grecale segnalava un guasto al timone ed era autorizzato a rientrare a Taranto.
Le navi inglesi aprirono a loro volta il fuoco, poi cominciarono a stendere ininterrottamente spesse cortine fumogene per tutta la durata del combattimento, favorite dallo scirocco.
La Squadra italiana continuava a sparare, vennero colpiti gli incrociatori Cleopatra e Euryalus, insieme ai cacciatorpediniere Kingston e Havock.
Il cacciatorpediniere Sikh, con i suoi cannoni da 120 mm, appoggiato dal Lively e dall’Hero, puntò direttamente sulla Littorio attraverso le cortine fumogene. Centrato da un proietto si disimpegnò a fatica lanciando due siluri. Sebbene la distanza dal nemico fosse scesa a 13.000 metri, alle 17.52 le navi italiane sospesero il tiro per la pessima visibilità, per poi accostare per sottrarsi alle salve d’artiglieria che continuavano a cadere numerose.
A queste basse distanze, secondo Iachino, era praticamente annullato uno dei principali vantaggi dei grossi calibri del Littorio, cioè la loro superiore portata, mentre le cortine non permettevano di individuare il lancio di siluri e di manovrare per evitarli.
L’ammiraglio così descrive la situazione creatasi dall’attacco dei cacciatorpediniere: “Sbucano dalla nebbia alcuni cacciatorpediniere che dirigono decisamente all’attacco facendo contemporaneamente fuoco su di noi. Su di questi si concentra il nostro tiro. Un cacciatorpediniere nemico colpito accosta sulla sinistra e si occulta, gli altri portano a fondo l’attacco e alle 18,46 dopo aver lanciato sulla dritta stendono una cortina di nebbia. Il Gruppo Littorio-Gorizia evita i siluri accostando ad un tempo in fuori per 290°, continuando il tiro sui cacciatorpediniere nemici. In questa fase un siluro passa di prora al Littorio, un cacciatorpediniere nemico appare colpito dalle salve da 152; un altro cacciatorpediniere di poppa al Littorio è colpito in pieno da una salva della torre 3 da 381 e scompare in mezzo al fumo. Si ordina a tutti rotta 330° velocità 26 nodi per allontanarsi rapidamente dalla zona di lancio, tutta avvolta da densa nebbia che il forte vento spinge continuamente contro di noi. Un colpo di medio calibro colpisce la scala di poppa a dritta. Si sospende il tiro. 19,06 – Si ordina a tutti rotta Nord”.
I cacciatorpediniere italiani per il mare grosso non ebbero la possibilità di entrare in azione e contrattaccare. Solo l’Alpino aprì il fuoco, mentre l’Aviere lanciò due siluri contro un incrociatore da 7.000 metri
Da parte italiana solo il Littorio fu colpito, senza conseguenze, da una granata da 120 o 133 mm e riportò danni a una torre di medio calibro per l’esplosione di un cannone da 152. Si ritenne che il cannone fosse stato colpito sulla volata mentre partiva un colpo scoppiato in canna. Le altre unità non furono raggiunte che da schegge.
La Squadra si ritirò: stava cadendo la notte e il convoglio era ormai lontano. Sarebbe stato quasi completamente distrutto dall’aviazione italo tedesca.
Nel suo rapporto Iachino scrive che, caduta l’oscurità: “Non rimaneva che continuare a dirigere verso Nord per allontanarsi dalla zona della battaglia e per fare perdere le nostre tracce agli aerei nemici che eventualmente fossero venuti a ricercarci e ad attaccarci”. Si faceva forte della disposizione di Supermarina di evitare il combattimento notturno.
Il professore Santoni osserva che, come avevano ben compreso i Britannici e i Tedeschi, lo stato d’inferiorità degli Italiani era determinato dalla mancanza di un sufficiente addestramento al combattimento notturno, creando negli ammiragli e comandanti una condizione di vero terrore che non fu mai superata. Al tramonto le navi italiane, impegnate in un combattimento, si allontanavano a grande velocità.
Il combattimento notturno, non previsto nella dottrina della Regia Marina, fu una sorpresa per i nostri alti comandi. Ci si imbatte sempre nella assoluta ignoranza di quanto avveniva all’estero dove Inglesi e Giapponesi, questi privi di radar, portarono avanti un intenso addestramento negli anni tra i due conflitti mondiali.
Una flotta ben allenata e ben manovrata non ha nulla da perdere e anzi molto da guadagnare in uno scontro notturno, osservava l’ammiraglio Cunningham. Di certo la prudenza era la migliore virtù degli ammiragli italiani.
Liddell Hart sosteneva che i generali sono più coraggiosi degli ammiragli perché: “I generali mandano, gli ammiragli vanno”.
La seconda battaglia della Sirte si svolse in condizioni meteorologiche proibitive.
Nel ritorno, in un mare sempre più tempestoso, affondarono i cacciatorpediniere Lanciere e Scirocco. Il comandante del Lanciere lanciò l’ultimo messaggio: “Stiamo per affondare, Viva l’Italia, viva il Re, viva il Duce”.
476 marinai annegarono.
Iachino, nel suo Tramonto di una grande marina, scriverà: “La creazione di queste unità sottili si rivelò poco resistente anche alla violenza del mare grosso, tanto che dopo qualche perdita dolorosa in tempo di guerra, si dovette ricorrere a drastici provvedimenti per assicurare loro una migliore tenuta al mare”.
Aggiunge De Risio che nessuna marina nel Mediterraneo ebbe simili defaillances.
I gruppi Littorio e Gorizia subirono nella navigazione per Taranto e Messina danni gravi. In particolare l’incrociatore Bande Nere fu costretto ad uscire di formazione per cambiare rotta, mentre l’incrociatore Trento nell’andare in soccorso del caccia Lanciere fu investito da poppa da onde altissime. Dapprima, alle 13.30, dovette ridurre la velocità a 12 nodi e un’ora dopo, essendo aumentata la forza del mare, fu temporaneamente costretto a invertire la rotta, per numerose infiltrazioni d’acqua. I cacciatorpediniere subirono avarie, alcune gravi, alle sovrastrutture e agli impianti elettrici e raggiunsero con difficoltà le loro basi. Il Littorio riportò danni, per evidenti difetti di costruzione, che in particolare agevolarono infiltrazioni d’acqua nelle torri dei grossi calibri.
LA GUERRA DEI CONVOGLI
Questa catena, dataci da trascinare, fu saldata alle nostre membra per oltre tre anni.
Cavagnari
L’ammiraglio Cavagnari lamenta nelle sue Memorie che: “Un ingente gravame, tanto deprecato fin da tempi lontani, era stato posto sulla Marina Militare ed era inevitabile di sopportare il carico: il trasporto di ingentissimi Corpi di truppa sulla sponda libica. Si iniziò il primo, se ne fece un secondo e fu assicurato che sarebbe stato l’ultimo”.
Sul problema Badoglio, nella riunione dei Capi di Stato Maggiore del 26 gennaio 1939, aveva dato un altro saggio delle sue capacità di stratega affermando: “[…] i grandi trasporti di truppe in tempo di guerra sono delle operazioni molto aleatorie. Dobbiamo quindi considerare che le truppe della Libia in caso di conflitto avranno la forza cui riusciremo a portarle prima delle ostilità”.
Chi scrive resta perplesso a queste parole, sembrando inevitabile il regolare rifornimento di uno scacchiere bellico, l’unico nel quale si combatté per quasi tutta la durata del conflitto, da parte di una Marina che non sembrava in preda a furori bellici o in procinto di preparare grandi battaglie contro la Gran Bretagna.
Torna a suo onore di essere riuscita, con sacrificio di uomini e navi, a tenere aperte le vie di comunicazioni sino a quando l’ultimo soldato italiano combatté in Africa.
Tripoli, Bengasi e Tobruk, unici porti della “Quarta Sponda”, avevano una ricettività totale contemporanea di soli 19 piroscafi, mentre quelli di partenza, Napoli, Bari e Brindisi, di 24. Sembra inutile dilungarsi sulla “naturale” disorganizzazione dei trasporti con enti diversi di ministeri diversi con esigenze diverse e sovrapposte, con responsabilità non precisate.
Scrive Giorgerini che la catena di coordinamento dei convogli partiva dallo Stato Maggiore dell’Esercito che indicava le proprie esigenze e i porti di partenza, l’Ufficio RTSO disponeva l’invio dei piroscafi ai porti di partenza e i quadri di imbarco insieme con l’Ufficio Trasporti del Regio Esercito e poi trasmetteva i piani alle Commissioni d’Imbarco della Regia Marina e del Regio Esercito nei porti di caricamento. Nel frattempo l’Ufficio Traffico Oltremare di Supermarina stabiliva le scorte navali e aeree tenendo conto delle disponibilità di mezzi secondo le indicazioni del Reparto Operazioni, dei Comandi in Capo di Dipartimento Marina Militare e delle Forze Navali e di Superaereo. Era quindi emanato l’ordine generale di partenza, il congiungimento in mare, le rotte da seguire e le scorte. In navigazione il convoglio passava sotto la direzione della centrale operativa di Supermarina che impartiva tutti gli ordini resisi necessari anche a seguito di cambiamenti della situazione.
All’arrivo le operazioni di sbarco erano svolte da comandi sul posto.
A titolo di esempio le navi di un convoglio partito il 6 luglio 1940 per Tripoli impiegarono 10 giorni per scaricare il materiale.
Con frequenza i mercantili erano caricati per una modesta aliquota della loro capacità: a volte, va aggiunto, per limitare eventuali perdite.
Secondo Giorgerini, per tutta la durata della guerra le navi partivano con carichi che andavano dal 25 al 50% della loro portata.
Si dovette arrivare al 10 aprile 1943, mancavano cinque mesi alla resa generale, per la costituzione a Roma del Comando in Capo delle Forze Navali di Protezione del Traffico (Silurantisom), alle cui dipendenze furono posti altri enti.
La flotta mercantile il 10 giugno 1940 contava su 786 navi per un totale di 3.318.129 tonnellate: era una flotta di tutto rispetto, con 30 navi superiori a 10.000 tonnellate. L’ordine di richiamo in patria o di raggiungere un porto neutrale per il naviglio navigante in tutti i mari del mondo fu emanato solo il 7 giugno. Questa manifestazione d’imbecillità portò alla perdita di un terzo della flotta mercantile, 212 navi per 1.216.637 tonnellate, tra cui 6 delle 30 navi superiori alle 10.000 tonnellate.
Come racconta Dino Grandi nel suo Il mio paese. Ricordi autobiografici, il ministro delle Comunicazioni, che si era precipitato da Mussolini per protestare, ne ebbe una tranquillizzante risposta: “Non c’è da preoccuparsi, tra qualche giorno riavrete le vostre navi triplicate in numero con navi francesi e inglesi”.
Secondo Ezio Ferrante la perdita fu superiore a quelle patite nei primi otto mesi dalla Marina mercantile inglese10.
Il naviglio appositamente creato per la difesa del traffico e la lotta ai sommergibili era quasi inesistente e se ne fecero carico cacciatorpediniere e torpediniere, dotati di primitivi idrofoni.
Sembra inutile ricordare che radar e sonar erano sconosciuti.
Sul radar va aperta una parentesi.
Nella ricerca di giustificazioni, ma sarebbe meglio dire attenuanti alla débâcle, il radar tiene il primo posto. Furono in molti a proclamare che la sua mancanza fu la causa principale dei nostri disastri; furono in pochi a ricordare che le ricerche, sospese nel luglio 1940, non furono mai affrontate con impegno per l’incapacità dei militari e dei politici di percepirne l’importanza essenziale. Eppure nel 1936 il professore Tiberio aveva conseguito risultati lusinghevoli.
Si legge ne La storia delle telecomunicazioni di Abbatangelo e altri: “Purtroppo, per ritardi e rallentamenti, alla fine del febbraio 1941 le prove dimostrative sull’EC3-bis non erano ancora state eseguite”.
Dopo Matapan: “Con un risveglio chiamato - mobilitazione RaRi - furono in grande fretta sviluppati un prototipo per la vigilanza costiera e il Gufo, un prototipo per l’impiego navale. Le prestazioni dei prototipi furono: ”eccellenti, modesti i risultati della realizzazione industriale: 4 apparati prima della fine di tutto”.
Lo strumento era sostanzialmente snobbato, tanto che, quando il Comando Superiore della Marina tedesca, Seekriegsleitung, l’offrì nel giugno 1939 durante l’incontro di Friedrichshafen, non vi fu un seguito. Alla vigilia della guerra l’ammiraglio Iachino aveva raccomandato di: “procedere con estrema cautela nell’accettare […] brillanti novità tecniche non […] ancora collaudate da un’esperienza pratica sufficientemente lunga”.
Nello stesso tempo si legge nell’opera di Borghese Decima Flottiglia Mas che i Comandi ordinavano: “[…] agli alleati mostrare qualcosa, ma non tutto; rivelare i segreti presumibilmente caduti nelle mani del nemico, ma non ancora quelli ancora ritenuti sicuri; tacere dei nuovi ritrovati tecnici ancora in fase di studio e di sperimentazione”.
Il pensiero va agli Inglesi, che misero a disposizione dell’alleato americano tutta la loro esperienza in materia di radar.
Si dovrà arrivare al settembre 1942, perché l’EC-3 Gufo fosse imbarcato su alcune unità, tra cui la corazzata Littorio, dopo una serie di affannose ricerche
Da parte inglese le prime due navi con apparecchiature radar entrarono nel Mediterraneo nel settembre 1940, ma fu solo nel 1942 che tutte le unità l’ebbero in dotazione.
Nel corso dell’asperrima battaglia dei convogli, con un documento Difesa del traffico marittimo contro i sommergibili datato 5 luglio 1941, Mussolini fece sentire la sua voce. Premesso che l’azione dei sommergibili nemici era aumentata, specie nel Tirreno; che era prevista in conseguenza la diminuzione dei trasporti marittimi; che bisognava raggruppare il traffico, senza peraltro passare al convogliamento, occorreva “accelerare lo studio e l’applicazione d’idrofoni agli idrovolanti della ricognizione marittima”, mentre: “per le sei squadriglie di cacciasommergibili di cui è previsto l’approntamento e per le quali si riscontrano difficoltà per le dotazioni di artiglieria, sia subito studiato l’impiego di cannoni da 75 del R.E., mortai da 81 e, quando disponibili, cannoni da 47”.
Le apparecchiature di ascolto per la localizzazione dei sommergibili erano antiquate e prevalentemente ad azione passiva (idrofoni) mentre quelle ad azione attiva, ecogoniometri o ASDIC, erano in fase sperimentale e con caratteristiche inferiori a quelle alleate.
Si dovrà arrivare alla metà del 1942 per lo schieramento di unità di nuova costruzione, le torpediniere classe Ciclone e le corvette classe Gabbiano, potenziate da armamenti antiaerei ed ecogoniometri forniti dall’alleato tedesco.
La copertura aerea era assicurata solo di giorno, i caccia operavano con stretti limiti di autonomia. Gli aerei erano per la maggior parte superati e votati al sacrificio con un armamento estremamente modesto. Si può immaginare l’esito di uno scontro tra un Supermarine Seafire con 2 cannoncini e 4 mitragliatrici, una velocità di 656 km/h e un idrovolante trimotore CANT Z.506 Airone, velocità massima 364 km/h con 4 mitragliatrici.
Scrive l’ammiraglio Cunningham: “Non si poteva non sentire pietà per gli aviatori italiani che affrontavano un compito senza speranze, su quegli inadeguati velivoli”.
Le normali comunicazioni radio tra aerei e navi, cui si arrivò dopo moltissimo tempo, per motivi di sicurezza non potevano effettuarsi e non si conoscevano altri sistemi di comunicazione.
Si ricorreva a sistemi che risalivano alla marineria a vela con segnali convenzionali costituiti da teli, razzi e fumate di vari colori.
Allo scoppio delle ostilità la Marina fu subissata di richieste di rifornimenti per la Libia. Si scoprì che i reparti avevano un’autonomia operativa di circa 10 giorni e in conseguenza si trasportarono uomini, rifornimenti e armi anche con sommergibili e cacciatorpediniere. A ottobre si aggiunse il nuovo fronte greco, poi diventato albanese.
La Royal Navy combatté questa guerra con sommergibili e aerei, ricorrendo in seconda ipotesi ai cacciatorpediniere ed a incrociatori leggeri, con un’efficiente ricognizione aerea e un formidabile sistema di decrittazione delle comunicazioni.
Eppure, la stragrande maggioranza dei carichi arrivò regolarmente in Libia e in Tunisia, e le perdite raggiunsero quote proibitive solo dopo lo sbarco angloamericano nell’Africa francese.
Riassumendo i dati, il personale italo tedesco trasportato in Libia arrivò nella percentuale del 91,6%, in Tunisia del 93%. Il materiale, espresso in tonnellate, in Libia nella misura dell’85,9% e in Tunisia nella misura del 71%.
Si ebbero le prime perdite quando il 27 giugno 1940, 3 cacciatorpediniere partiti da Taranto stracarichi di Camicie Nere vennero a contatto con una divisione di incrociatori. Lo scontro fu rapido, l’Espero capo squadriglia partì all’attacco e fu affondato ma permise allo Zeffiro e all’Ostro di raggiungere la destinazione.
Il 25 febbraio 1941 fu affondato l’incrociatore Diaz di scorta a un convoglio, ma la prima dura sconfitta si ebbe nel successivo aprile, quando i convogli, dopo dieci mesi di tranquillità, furono sottoposti a violenti attacchi di navi di superficie.
Il giorno 13 aprile un convoglio di 4 navi tedesche e una italiana, partito da Napoli scortato dai cacciatorpediniere Tarigo, Lampo e Baleno fu attaccato da 4 cacciatorpediniere partiti da Malta. Gli Inglesi, manovrando con il radar, si portarono a distanza di tiro mentre le navi italiane procedevano nel buio più assoluto, a 2.000 metri aprirono il fuoco distruggendo il convoglio e gravemente danneggiando il Lampo e il Baleno, mentre il Tarigo, colpito a morte, silurò e affondò il Mohawk. Subito dopo da Tripoli, per portare soccorso ai naufraghi, partì una squadriglia di cacciatorpediniere, 5 torpediniere e 2 navi ospedale. Per un’errata interpretazione il cacciatorpediniere Vivaldi segnalò: “Una forza navale nemica considerevole” con successiva marcia indietro, salvo ad accertare in seguito che detta forza non esisteva.
Nel 1941 si manifestò pienamente l’assoluta superiorità della flotta inglese, in quanto la Regia Marina mancava di mezzi di rilevamento a distanza e di addestramento al combattimento notturno. Sorgeva inoltre l’assoluta necessità di poter disporre dei porti della Tunisia per allontanare le rotte dei nostri convogli dal raggio d'azione degli aerei e delle forze navali stanziati a Malta, ma Hitler fu irrevocabile: la Francia doveva essere trattata come un futuro alleato.
Una perdita pesante fu quella del Conte Rosso un grosso mercantile silurato da un sommergibile inglese l’Upholder il 24 maggio con dolorose perdite tra gli imbarcati.
Nel giugno dello stesso anno un convoglio di sei mercantili accompagnato da cacciatorpediniere e incrociatori fu attaccato da Bristol Blenheim che seguirono per un certo tempo il convoglio senza reazioni perché ritenuti aerei tedeschi. Quando i 2 CR.42, biplani da caccia, lasciarono il convoglio i bombardieri passarono all’attacco e affondarono il piroscafo Montello, carico di benzina e munizioni che saltò in aria senza superstiti. Un’altra nave fu affondata da un nostro cacciatorpediniere perché gravemente danneggiata. Sette giorni dopo l’arrivo in porto il convoglio non aveva ancora potuto scaricare il materiale e, per il sopraggiungere di un altro convoglio, una parte fu riportata ai porti di partenza.
Non è difficile immaginare i sentimenti di uomini che rischiavano la vita per questi risultati.
Da settembre la situazione peggiorò con un crescendo di perdite.
Il giorno 16 partì da Taranto il convoglio Vulcania composto dalle navi passeggeri Vulcania, Oceania e Neptunia, tutte in grado di sviluppare una velocità di 20 nodi, con una scorta di 5 cacciatorpediniere. Avvistato dalla ricognizione aerea, fu attaccato da sommergibili che colpirono prima il Neptunia e poi l’Oceania. Il secondo affondò lentamente, il primo, circondato da 4 cacciatorpediniere che gli portavano soccorso fu finito da un nuovo lancio di siluri. Il Vulcania scampò miracolosamente a un’altra salve di siluri.
Il colpo era pesante, Bastico, comandante in Africa Settentrionale, scriveva a Ricciardi: “Dalla relazione ho pure rilevato che l’impiego di mezzi protettivi (navali e aerei) di cui Marilibia dispone, è stato fatto con criterio prudenziale che io, in questi casi, reputo eccessivo. Ed ho perciò invitato Marilibia a essere in avvenire, accorto sì, ma energico e deciso. Doti queste di cui al dire il vero difetta alquanto”. L’ammiraglio Riccardi incontrando il duce a Palazzo Venezia fu così ammonito: “Voi Riccardi per la perdita dei due transatlantici ci dovete delle altre spiegazioni su cosa state combinando in mare!”.
A ottobre si costituì a Malta la Forza K con 2 incrociatori leggeri e 2 cacciatorpediniere e, nello stesso tempo, si potenziava il sistema Ultra che, secondo Giorgerini: “cominciò ad avere un’influenza non trascurabile, senza essere sempre determinante, su non poche operazioni del conflitto in Mediterraneo”.
Una sconfitta cocente nella guerra dei trasporti, paragonabile a quella di Capo Matapan, fu l’attacco al convoglio Duisburg. Il 9 novembre 1941 da Napoli salpa il convoglio Duisburg, dal nome di una nave tedesca che ne faceva parte, composto da 7 navi, scortato da 6 cacciatorpediniere e dalla III Divisione incrociatori, composta dagli incrociatori pesanti più veloci della Marina. La scorta aerea fu impeccabile per tutta la giornata, ma cessò al tramonto. Da Malta partiva la Forza K. L’incrociatore Aurora con il suo radar localizzò il convoglio, evitò la III Divisione, attaccò e distrusse i 7 mercantili nella sorpresa generale. La mattanza ebbe inizio con due cacciatorpediniere: uno affondato, l’altro, colpito, si allontanò scortato da un altro cacciatorpediniere. La nave del capo scorta, colpita nell’antenna radio, non poté impartire ordini e provocò il disorientamento negli altri cacciatorpediniere. La confusione, la mancanza d’iniziativa divenne generale, Giorgerini scrive: “Nessuno affrontò il nemico con qualche iniziativa di contrattacco”.
Il comportamento della III Divisione, meglio, del suo comandante ammiraglio Brivonesi, fu confuso e incerto- Aprì il fuoco senza risultati, si mosse a una velocità di 15-16 nodi, non riuscì a intercettare il nemico. Mentre erano in corso le operazioni di salvataggio dei superstiti, sopraggiunse un sommergibile inglese che affondò il cacciatorpediniere Libeccio.
Il Comandante in capo della Squadra Navale, ammiraglio Iachino, nella sua relazione termina: “L’apprezzamento della situazione tattica risultava quindi estremamente difficile […] errori di apprezzamento tattico […] incertezza nella mente dell’ammiraglio Brivonesi”.
Il comandante della Forza K, tra le cause del successo elenca: ”La grossolana negligenza della Marina italiana”.
Ciano, nel suo Diario [9 e 10 novembre], annota: “Risultati inesplicabili […] Mussolini depresso e indignato […] Ho domandato a Cavallero che cosa sarà fatto all’ammiraglio responsabile. Intanto, fino ad ieri sera, Cavallero ne ignorava persino il nome”.
Su ordine di Mussolini, Riccardi ordina lo sbarco di Brivonesi che, sottoposto al tribunale militare con l’accusa di “Perdita colposa di nave militare. […] non avere osservato le prescrizioni regolamentari e le comuni regole della tattica navale per la direzione e condotta del combattimento”, verrà assolto nel luglio 1942 con formula piena.
Il novembre 1941 fu un mese disastroso per i convogli, specialmente ad opera della Forza K che spadroneggiò in tutta l’area fino a quando non incappò in un banco di mine presso Tripoli, che mise fine alla sua esistenza. L’incrociatore Neptune e il cacciatorpediniere Kandahar furono affondati, gli incrociatori Aurora e Penelope danneggiati.
Dal mese successivo le cose migliorarono. Gli Inglesi furono duramente impegnati nella guerra contro il Giappone, la X MAS colpiva ad Alessandria. Inoltre entrarono in servizio nuove e più moderne motonavi con una velocità di circa 15 nodi.
Rommel in Africa si apprestava a un'ulteriore offensiva. Le richieste di rifornimenti, in particolare di carburante si facevano sempre più urgenti. La Marina fu costretta a usare prima sommergibili e cacciatorpediniere poi incrociatori leggeri che erano caricati anche sulla coperta. Erano autentiche bombe infiammabili che navigavano per la Libia, in una situazione di estrema pericolosità.
Il giorno 12 dicembre gli incrociatori Da Barbiano e Di Giussano con la torpediniera Cigno partirono da Palermo per Tripoli, stracarichi di benzina. Mancano all’appello l’incrociatore Giovanni delle Bande Nere e la torpediniera Climene che accusarono avarie ai motori, cosa che accadeva con notevole frequenza.
La presenza dei fusti non permetteva agli incrociatori il brandeggio dei cannoni da 152 mm delle torri poppiere. L’operazione era stata subito intercettata dall’onnipotente Ultra e segnalata dalla ricognizione aerea. Una squadriglia di 4 cacciatorpediniere era in agguato presso Capo Bon e piombò sul convoglio, ancora una volta non avvistata, annientandolo senza reazioni da una distanza di circa 1.000 metri. A lungo si discusse su un’improvvisa manovra dell’ammiraglio Toscano che ordinò l’inversione della rotta per 180 gradi, la manovra portò la formazione davanti ai cannoni inglesi.
Nello stesso periodo fu organizzato l’invio di tre convogli con 8 mercantili in partenza da Taranto e dalla Grecia. La scorta sarebbe stata potenziata dalle corazzate Vittorio Veneto e Littorio. Alla notizia, risultata poi falsa, che la Mediterranean Fleet era in navigazione, Supermarina ordinò il ritorno in porto del convoglio. Come succedeva con preoccupante frequenza, sommergibili inglesi lanciati all’inseguimento piazzarono un siluro sul Vittorio Veneto danneggiandolo e affondarono due delle moderne motonavi entrate da poco in servizio, mentre due piroscafi si scontrarono in mare. L’onore della giornata fu salvato dall’affondamento di un incrociatore leggero inglese, ma per opera di un sommergibile tedesco.
Col gennaio 1942 inizia un periodo felice per i nostri convogli, che arrivano in Libia senza gravi perdite. In più occasioni sono scortati dalla Squadra Navale, anche se la cosa solleva perplessità negli alti gradi. Le perdite diminuiscono, la cooperazione con l’aviazione migliora, la forza navale inglese è ridotta al minimo, Malta è martellata continuamente, Rommel avanza.
Ad agosto però gli Inglesi iniziano un lento ma continuo potenziamento dell'isola, arrivano gli Americani la cui forza aerea, man mano rafforzata con materiale di prim’ordine, raggiunge quella inglese all’epoca dell’Operazione Torch. Cominciano ad aumentare le perdite navali ad opera dei sommergibili e degli aerei, anche se sul cacciatorpediniere Legionario è imbarcato un radar tedesco e un apparato Metox per il rilevamento delle emissioni radar nemiche. Gli Inglesi avanzano in Libia, gli angloamericani sbarcano in Marocco e Algeria, le perdite navali aumentano a dismisura, comincia la crisi della nafta e della benzina.
La guerra dei convogli si trascinerà fino al maggio 1943 con perdite sempre superiori su quella che fu definita la “rotta della morte”. Si ritiene sufficiente un solo dato: si 344 piroscafi se ne persero 154 e 138 furono danneggiati.
I SOMMERGIBILI
Rapidi e invincibili partono i sommergibili...
(Canzone dei sommergibilisti italiani)
All’entrata in guerra la flotta di sommergibili della Regia Marina era la seconda al mondo dopo quella sovietica, che disponeva di 156 unità. Quella russa era però divisa in quattro flotte: Mar Artico, Mar Baltico, Mar Nero e Pacifico non in comunicazione tra loro. L'Italia invece schierava, sotto il comando di Maricosom (Comando Marina Sommergibili), 117 battelli, dei quali 40 oceanici e 77 costieri.
Il 25 maggio 1940 Cavagnari diramò l’Ordine Generale 8ter per la dislocazione “eminentemente offensiva”, nei primi 3 giorni di operazione in Mediterraneo, del maggior numero di battelli.
I sommergibili italiani entrarono in guerra con un addestramento maturato nella guerra civile di Spagna, alla quale presero clandestinamente parte per ostacolare il traffico marittimo della Spagna repubblicana soprattutto con l'URSS.
Dalle risultanze di questo conflitto la Regia Marina si radicò nella sua regolamentazione tattica fondata sul “punto fisso d’agguato” e sul “sommergibile boa”, pittorescamente descritto dall’ammiraglio Maraghini, comandante all’epoca della Squadra Sommergibili: “La capacità offensiva del sommergibile può sempre paragonarsi a quella del serpe velenoso, lento nei movimenti, nascosto mimeticamente tra i sassi o la sabbia, che non può cercare o rincorrere la sua preda, ma attende pazientemente che passi presso di lui: allora solo il suo morso mortale, che però non può ripetere se manca, come non può sfuggire alla reazione della preda che nascondendosi, incapace come è di sfuggire veloce”11.
La tattica adottata dalla Marina tedesca era invece totalmente diversa e ben più aggressiva.
I battelli dovevano avere una velocità in superficie superiore a quella dei convogli per seguirli, raggiungerli e superarli durante l’attacco. Le dimensioni delle torrette erano ridotte, così come il raggio di evoluzione per permettere di manovrare rapidamente di notte all’interno dei convogli attaccati. Si aggiunga l’estrema rapidità d’immersione e si ha il quadro di un formidabile strumento di attacco.
All’inizio del conflitto, i 56 sommergibili della Regia Marina sparsi in tutto il Mediterraneo ebbero l’ordine di: “Attaccare ad oltranza, senza preavviso, il traffico mercantile riconosciuto nemico”.
Nel primo mese di guerra il Bagnolini, nelle acque a sud di Creta, affonda l’incrociatore Calypso di 4.180 tonnellate, “piccolo e vecchio” secondo Giorgerini; una petroliera e un “piroscafetto” entrambi norvegesi. Va ricordato per il suo coraggio il comandante del sommergibile Guglielmo Marconi che, lanciatosi all’attacco contro una formazione di 6 cacciatorpediniere, ne danneggiò uno e, 9 giorni dopo, ne colò a picco un altro. Fu brillante anche l’azione condotta dal sommergibile Neghelli che, da una distanza ridotta, attaccò in superficie l’incrociatore Coventry con 4 siluri, danneggiandolo gravemente.
Il 15 agosto fu una brutta pagina per la Marina italiana. Per ordine di Cavagnari, nel clima che precedette la guerra alla Grecia che iniziò nel successivo ottobre, il sommergibile Delfino silurò lo Helli un vecchio incrociatore greco che, nel corso di festeggiamenti religiosi, era alla fonda davanti all’isola di Tino.
Le perdite subite dalla Regia Marina nei primi sei mesi furono impressionanti, 20 sommergibili affondati, di cui 14 nel Mediterraneo.
Particolarmente grave fu quella dell’Uebi Scebeli, che il 29 giugno, attaccato da 3 cacciatorpediniere, avendo riportato gravissimi danni, risalì alla superficie per permetterne l’abbandono. Abbordato da una lancia il comandante, come dichiarò alla Commissione d’inchiesta nel dopoguerra, lanciò in mare i cifrari che, si legge: “[…] ritardassero ad affondare”. Inizia, secondo Giorgerini: “La dibattuta questione di quando e di quanti cifrari e/o ordini di operazione della Marina italiana caddero in mani nemiche in quel periodo, facilitando il compito della ricerca e della distruzione di altri sommergibili italiani. Erano passati 10 giorni dalla cattura dei cifrari del Galilei nel Mar Rosso”.
Un altro caso si ebbe il 18 ottobre, quando il Durbo, sottoposto a un prolungato attacco, emerse permettendo a un equipaggio salito a bordo di impadronirsi di documenti segreti. Supermarina non ne venne a conoscenza, altri sommergibili furono affondati.
Osserva Giorgerini che la maggioranza delle perdite avverrà per unità salite alla superficie a seguito di danni e che: “per tutta la durata della guerra questo comportamento rimase prevalente nella sola Regia Marina”.
Il Marisupao, “Comando Sommergibili dell’Africa Orientale” con sede a Massaua, aveva una forza di 8 sommergibili, 6 oceanici e 2 costieri, cui si aggiungevano due squadriglie di cacciatorpediniere usurati dagli anni e unità minori nello stesso stato.
Alla data della dichiarazione di guerra i sommergibili presero il mare e subito si verificò la prima tragedia. Durante la navigazione il comandante del Macallé confuse un faro per un altro, urtò in alcuni scogli, s’incagliò e andò a fondo. L’equipaggio si rifugiò su un isolotto e fu salvato da un
altro sommergibile alcuni giorni dopo. L’errore viene attribuito anche alle esalazioni del cloruro di metile.
Negli anni precedenti il Comando aveva segnalato allo Stato Maggiore della Regia Marina il problema del cloruro di metile, usato per il condizionamento dell’aria, che causava pericolose intossicazioni tra gli equipaggi, senza che nessun provvedimento fosse preso.
Il Galilei subì l’onta maggiore, la cattura da parte del nemico. Partito in missione intercettò subito una petroliera norvegese affondandola, dopo aver permesso all’equipaggio di abbandonarla. Da Aden salparono navi e aerei e cominciò la caccia. Salito alla superficie, iniziò un duello con i suoi 2 cannoni da 100 mm e 2 mitragliere contro una cannoniera, la Moonstone, armata di un cannone e mitragliere. Il duello risultò subito impari perché i cannoni del sommergibile s’incepparono, il comandante fu ucciso insieme con altri membri dell’equipaggio e fu innalzato il segnale di resa. Secondo la storia ufficiale della Regia Marina cadde nelle mani inglesi l’ordine generale di operazioni per i sommergibili di Massaua. 4 giorni dopo, infatti, fu affondato il Galvani.
La perdita del Torricelli si svolse in modo diverso. Attaccato da 3 caccia e 2 cannoniere, dopo aver lanciato una sventagliata di 4 siluri, salì in superficie, impegnò col suo cannone la cannoniera Shoreham danneggiandola e il cacciatorpediniere Karthoum che, a seguito dello scoppio di un siluro provocato da un proietto del sommergibile, successivamente affondò. Dopo 40 minuti di combattimento il Torricelli si autoaffondò.
Il prolungato duello, come scrisse la Commissione d’inchiesta dopo la guerra, fu dovuto all’intenzione di catturare l’unità.
Il bilancio, dopo pochi giorni di guerra, era disastroso: 4 sommergibili affondati; in unità non adatte al clima si erano rilevati problemi di ogni genere: infiltrazione di gas metile, usura dei macchinari, ritardi nelle riparazioni, stato fisico del personale. L’ultimo successo conseguito fu l’affondamento di una petroliera greca.
Ormai la situazione generale in Etiopia era compromessa: truppe britanniche avanzavano da tutti i confini e dal primo al 4 marzo 1941 tre sommergibili oceanici e il Perla, reduce da una missione nella quale molti marinai avevano dato segni di pazzia, salparono per la lontana Bordeaux. Dopo circa 65 giorni i tre oceanici la raggiunsero seguiti dal piccolo Perla che, con un’impresa straordinaria, impiegò 81 giorni.
Nessuno di questi battelli vedrà la fine della guerra.
Nell’oceano Atlantico, quella che Churchill definì la “Battaglia dell’Atlantico” durò ininterrottamente per tutta la durata del conflitto con alternanza di risultati, ma Stati Uniti d’America e Gran Bretagna misero in campo un potenziale navale che li portò alla vittoria.
I sommergibili tedeschi, agli ordini dell’ammiraglio Karl Dönitz, ottennero straordinari successi, si sparsero su tutti i mari impegnando duramente la Marina inglese e, nel tempo, la statunitense. Nel corso delle operazioni affondarono navi mercantili per 14.687.231 tonnellate.
I sommergibili italiani parteciparono a questa asperrima lotta impiegando 32 battelli con la perdita di 16 e affondarono 109 navi per 593.000 tonnellate.
Dopo le prime operazioni apparve evidente la necessità di una base sulle coste francesi, per le difficoltà di attraversamento dello stretto di Gibilterra. Fu così che, dopo laboriose trattative, fu costituito il primo settembre 1940 il Betasom Gruppo Sommergibili Atlantici a Bordeaux al comando dell’ammiraglio Parona con 27 sommergibili tra i più moderni.
Nel precedente mese di agosto, il tenente di vascello Borghese, con altri due ufficiali, partecipò a un brevissimo corso presso la Scuola Sommergibili tedeschi a Memel e stimò che il personale tedesco non era: “né individualmente né collettivamente sotto alcun aspetto superiore al nostro: ma usufruiva di un prolungato ed eccellente tirocinio teorico-pratico che dava ai tedeschi, in fase di addestramento, un’esperienza e capacità che i nostri comandanti ed equipaggi acquisivano soltanto attraverso le missioni di guerra”, sempre che riuscissero a sopravvivere.
Apparvero subito evidenti i limiti operativi dei sommergibili italiani che Dönitz, comandante dei sommergibili germanici, Befehlshaber der U-Boote, in un primo tempo, voleva inserire negli schemi operativi degli U-Boote.
Nel novembre, 1940 in visita a Bordeaux, dichiarò: “Questi non sono sommergibili, sono delle cattive cannoniere, ne perderete molte e avrete pochi successi”. Subito propose un programma di addestramento per i comandanti italiani nella scuola sommergibili di Gotenhafen e un programma di addestramento tattico per i battelli nelle acque del Golfo di Guascogna che, accettato da Parona, provocò la viva reazione di Supermarina per l’eccessiva pericolosità di quelle acque. Si decise così che l’addestramento si sarebbe svolto nel più sicuro Baltico dal gennaio 1941.
Parona, privo di doti diplomatiche, in più occasioni espresse giudizi negativi per alcuni comandanti, accusandoli di: “Deficienza di aggressività” e, in qualche caso, ottenne che fossero sbarcati. Ammiratore di Dönitz e dell’organizzazione tedesca, era considerato negli ambienti ovattati dello Stato Maggiore troppo rigido, privo di quelle doti diplomatiche che si ritenevano necessarie. Era un uomo che non esitava ad accusare di vigliaccheria o incapacità tecniche i comandanti in sottordine e ciò provocava proteste e insofferenze.
La situazione divenne delicata quando il comandante della Marina tedesca, ammiraglio Reader, si rivolse direttamente a Badoglio.
Alla fine del 1940 si erano perduti due sommergibili a fronte di 18 navi affondate per 69.000 tonnellate.
Dönitz, nel suo Diario di guerra, dopo un’iniziale comprensione per i problemi delle unità italiane, manifestò la sua sfiducia,: “Sono ancora in dubbio se, a causa delle loro trasmissioni radiotelegrafiche, dei loro inabili attacchi, e del fatto che - si fanno vedere -, il loro ingresso nella zona di operazione dei sommergibili tedeschi, non abbia portato più danni che vantaggio” […] sono costretto a impiegare e a lasciare operare i sommergibili tedeschi senza tener conto degli italiani”.
Nel maggio 1941 i sommergibili italiani furono spostati dall’Atlantico Settentrionale all’area centromeridionale, più adatta, anche per le condizioni del mare, ai nostri battelli. I risultati continuano ad essere magri, a fronte di una difesa antisom sempre più potenziata con nuovi apparati tecnici e aerei a lunga autonomia. Parona diventò sempre più irascibile, lamentando l’incapacità di portare attacchi coordinati. A settembre fu rimosso dal comando.
Con l’entrata in guerra degli Stati Uniti le possibilità di affondamenti aumentano. Si mette in luce Carlo Fecia di Cossato, comandante del Tazzoli, che affonda in una missione 6 navi per 29.000 tonnellate. Complessivamente mandò a fondo 16 navi, per un totale di 86.000 tonnellate, secondo solo per il tonnellaggio a Gazzana Priaroggia, con 90.000 tonnellate.
Il pressapochismo con il quale si procede, la mancanza di fonti comuni d’informazioni, viene alla luce il 16 agosto 1941, quando il Capo di Stato Maggiore della Regia Marina ammiraglio Riccardi: “Venuto a conoscenza che sono in allestimento in Italia per operare in Atlantico velivoli aventi caratteristiche analoghe o forse superiori al Focker Wulf”, [il nome esatto era Focke-Wulf 200C Condor] ne chiedeva la dislocazione a Bordeaux, ricevendo il 25 agosto un netto rifiuto da Pricolo per la necessità, tra l’altro, “di un particolare addestramento da parte degli equipaggi”.
In effetti, il Piaggio P.108 su cui morì un figlio del duce, unico quadrimotore prodotto dall’industria italiana, scese in campo il 9 giugno 1942 per una ricognizione offensiva sul Mediterraneo. Nello stesso mese i 5 quadrimotore efficienti partirono per Gibilterra, uno tornò alla base per avarie ai motori: “Degli altri, 3 erano costretti ad effettuare atterraggi di fortuna in Spagna a causa di eccessivo consumo di carburante”.
La tendenza a storpiare le parole straniere era diffusa. Il 16.11.1942. Il generale Bastico, lamentando la penuria e la mediocrità degli aerei italiani a disposizione, riferendosi a quelli tedeschi usa la parola Heinckelm al posto di Heinkel. L’ammiraglio Paladini, in una relazione dopo Punta Stilo, definisce i Fairey Swordfish della Eagle Vickers-Wildebeast- IV “Terrestri”.
A fine guerra i sommergibili di Betasom avevano in carniere 109 navi affondate per un totale di 593.000 tonnellate, “inclusi alcuni bastimenti neutrali” sostiene Giorgerini.
Subito si delineò il modo italiano di fare la guerra.
In non pochi casi le navi erano affondate dopo aver permesso all’equipaggio di mettersi in salvo, in qualche caso i sommergibili rimorchiavano le scialuppe di salvataggio verso i porti più vicini. Si verificò il caso del sommergibile Marconi che, colpito con un siluro un vecchio mercantile, attese che l’equipaggio abbandonasse la nave per finirla, cosa alla quale provvide senza indugi un battello tedesco giunto sul posto.
Si è scritto che la Regia Marina abbia ecceduto in cameraderie con l’avversario britannico con un eccessivo “spirito sportivo”, in una “guerra senza odio” assolutamente non reciproca. Cunningham fu pesantemente rimproverato da Churchill quando segnalò in chiaro a Roma la presenza di naufraghi a Capo Matapan: “Questo genere di roba imbestialisce la gente che attraversa l’attuale calvario in patria”.
Sale alla ribalta Enzo Grossi, capitano di corvetta, comandante del Barbarigo, il quale comincia con l’affondare un mercantile spagnolo che naviga a luci accese. Il 18 maggio 1942 è la volta di un piroscafo brasiliano, in soccorso del quale arrivano due incrociatori americani il Milwaukee e l’Omaha, scortati da 2 cacciatorpediniere, contro i quali lancia siluri. Subito dopo Grossi comunica a Betasom di avere affondato una corazzata americana, confermando l’affondamento nel rapporto di fine missione con moltissimi particolari. La Regia Marina è a caccia di successi e, malgrado qualche iniziale perplessità, la notizia è pubblicata con grande enfasi e il comandante è onorato con la massima decorazione militare. Passano 5 mesi e Grossi comunica di avere affondato un’altra corazzata, anche in questo caso dando numerosi dettagli: “Ore 05,40 del giorno & […] ho affondato un’unità del tipo Nb Cl Mississippi [.-..] visto la nave affondare”” Seconda promozione, seconda Medaglia d’Oro, congratulazioni di Hitler e Dönitz, conferimento dell’Ordine di Cavaliere della Croce di Ferro. L’ammiraglio Polacchini, comandante di Betasom, che aveva avanzato fondate perplessità sull’affondatore, è rimosso dall’incarico, che viene assegnato a Grossi.
Nel 1943 termina, di fatto, la guerra della Regia Marina nell’Atlantico, che continuerà nel Pacifico con l’impiego di sommergibili per il trasporto di materiali in Giappone. In 5 missioni si persero 2 battelli.
In Mediterraneo, da gennaio a giugno 1941, l’attività continuò a essere deludente.
Un rapporto di Supermarina del 22 giugno accusa i sommergibilisti di mancanza di aggressività: “Ci si potrebbe chiedere se questi [avvistamenti diretti o a mezzo idrofoni] non avrebbero potuto essere più numerosi con una più decisa esecuzione della manovra di avvicinamento alla direttrice di marcia delle forze nemiche individuate”.
Il 9 settembre 1941, è passato un anno e 3 mesi dall’inizio della guerra, l’ammiraglio Falangola, comandante della Squadra Sommergibili, invia al capo di Stato Maggiore della Regia Marina un’allarmante relazione nella quale espone le sue considerazioni sulla situazione che era maturata. La dottrina del sommergibile boa, “il serpe velenoso” che doveva attaccare di giorno e in immersione, aveva dimostrato i suoi limiti, evidenziati dallo strumento a disposizione, estremamente visibile per la torretta troppo grande, nella quale erano sistemati servizi logistici e igienici, questi ultimi definiti sui sommergibili oceanici “imponenti”. Si aggiungeva la lenta capacità d’immersione, “si immergevano dignitosamente ma lentamente, come le balene”, un’estrema rumorosità, la possibilità di non potere lanciare contemporaneamente un numero di siluri superiore a 4, la mancanza di centraline di tiro e un armamento contraereo gravemente insufficiente. Falangola aggiunge che i lanci avvenivano a troppa distanza dal bersaglio, (la cosa sarà rilevata anche dai Tedeschi), che si lanciava una coppiola di siluri invece di 4, che le difficoltà di comunicazioni con altre unità erano gravissime e inesistenti quelle con gli aerei.
Parla di: “inefficienza di impiego” e propone addirittura: “una più diretta dipendenza da lui [Dönitz] dei nostri sommergibili, per qualche tempo”. Riccardi naturalmente si oppone.
Nel bombardamento di Genova, monumento all’incapacità della Regia Marina di difendere il suolo patrio, la mancata uscita dei sommergibili fu così giustificata nella storia ufficiale della Regia Marina: “L’Alto Comando Navale italiano [aveva] esclusa la possibilità che il nemico si potesse avventurare sin dentro il golfo ligure”.
A marzo si ha finalmente un brillante successo, il modernissimo incrociatore britannico contraereo Bonaventura è affondato per opera dell’Ambra il cui comandante, tenente di vascello Arillo, attacca in superficie.
Va rilevato che con frequenza i comandanti, anche perché attaccano in immersione, comunicano affondamenti o danneggiamenti che non corrispondono a verità, in quanto le esplosioni avvertite sovente accadevano a fine corsa del siluro.
A giugno '41 il Comando Sommergibili ebbe uno scambio di note con Superaereo e la sua richiesta di scorta fu, di fatto, ignorata.
A luglio Supermarina è messo in allarme e sono allertati i sommergibili dal Comando Supremo retto da Cavallero che, addirittura, valuta la possibilità di uno sbarco in Sicilia.
Non bisogna essere uno stratega per comprendere l’assurdità di uno sbarco in forze sulle coste italiane, quando si pensa alla complessità dell’operazione, al flusso di rifornimenti necessari, avendo già un fronte aperto in Libia. Il ricordo corre alle difficoltà incontrate dagli Alleati a Salerno.
Nello stesso mese di luglio la Marina inglese invia convogli a Malta schierando navi da battaglia, mentre continuano a essere modesti i risultati dell’arma subacquea italiana, che perde 5 sommergibili nel trimestre luglio-settembre. Nel frattempo i sommergibili continuano a essere impiegati per il trasporto di rifornimenti urgentissimi. Per un modesto carico trasportato, in media 80 tonnellate, si ha il cattivo impiego di un equipaggio di specialisti di grande valore.
Giorgerini nel suo Uomini sul fondo elenca un carico trasportato a Lero, isola dell’Egeo: “Oltre ad alcune casse di pezzi di ricambio per sommergibili, 100 chili di fichi secchi, 250 bottiglie di alcolici e superalcolici, 5 scatole di torrone finissimo, 48 penne stilografiche” e altro materiale dello stesso genere.
A fine 1941 il bilancio dei sommergibili era di 660 missioni con l’impiego di 111 battelli di cui 24 perduti (21,6%), a fronte di 40.801 tonnellate di naviglio nemico affondato. All’inizio del 1942 i sommergibili operativi erano saliti a 74, con l’immissione di 10 nuovi battelli. Dato positivo fu la diminuzione delle missioni interrotte per avarie a bordo. Da 22 dei sei mesi del 1940 si passò a 20 per il 1941.
Dal settembre 1941, malgrado l’opposizione di Raeder, entrano nel Mediterraneo i sommergibili tedeschi con risultati impressionanti.
Il 13 novembre l’U-81 affonda la portaerei Ark Royal, unità modernissima entrata in servizio nel 1939; il 25 l’U-331 la corazzata Barham sotto gli occhi di Cunningham con 831 morti; il 14 dicembre l’U-557 l’incrociatore Galatea nei pressi di Alessandria; l’11 marzo1942 l’incrociatore Naiad è affondato dall’U-565.
Tra le cause dei successi De Risio accenna: alla “estrema risolutezza” con cui venivano portati gli attacchi.
A seguito delle lamentazioni del duce, il comandante di Maricosom il 9 dicembre 1941 mette insieme un impressionante e, va riconosciuto, coraggioso cahier de doleance elencando le disfunzioni dell’Arma.
Si premette che la nostra Marina: “Si è presentata alla guerra con una flotta subacquea che sarebbe stata molto potente e temibile nelle condizioni della guerra passata […] Scarsezza di risultati e gravità delle perdite. […] Qualcuna delle deficienze più salienti era stata messa in evidenza dalla guerra di Spagna”.
Si passa poi all’impressionante elenco dei punti di debolezza dei battelli, con un micidiale raffronto con le unità tedesche.
Minore velocità in superficie, maggiore visibilità, minore rapidità d’immersione doppia o quadra di quella dei battelli tedeschi, minore manovrabilità, inferiorità delle armi e degli strumenti, con una minuta descrizione dei difetti dei siluri italiani: “I danni inflitti alle unità nemiche sono stati in genere di lieve entità, tanto che le navi da guerra hanno potuto rientrare quasi sempre alle basi”.
Se il rendimento bellico di un U-Boote è pari a 1,00, quello di un sommergibile italiano è pari a 0,21. Si accenna poi alla crisi degli equipaggi che ha costretto a sbarcare la maggior parte del personale più anziano che: “non resisteva alla prolungata vita di guerra”. Si passa poi a valutare l’annoso problema della cooperazione tra mezzi aerei e navali, la cui mancata soluzione il documento definisce un: “ostacolo gravissimo […] l’aviazione italiana ha combattuto una guerra parallela a quella dei sommergibili, ma distinta”.
Dopo pochi giorni l’ammiraglio fu sostituito.
In una successiva riunione, il Capo di Stato Maggiore convoca una riunione con i vertici dell’Arma e il nuovo comandante di Maricosom ammiraglio Legnani. Riccardi dipinse un quadro desolante della situazione; Parona parlò di un comando unico italo tedesco a direzione tedesca, di un personale: “troppo anziano rispetto a quello tedesco, con comportamenti differenti in missione […]; Iachino si unì alle critiche; Sansonetti fu il più rivoluzionario: tutti a casa o meglio a lezione dai Tedeschi: “Sbarcare Comandanti, Ufficiali ed equipaggi e inviarli a una scuola di nuova preparazione in Italia o, meglio, in Germania”.
La riunione finisce, nulla cambia, i sommergibili salpano per le loro missioni, un numero sempre maggiore non torna.
Nei primi cinque mesi del 1942 continuano le dolorose perdite, sovente per opera di sommergibili britannici. Unico successo fu quello dell’Aradam che affondava il cacciatorpediniere Havock. Sfortuna volle che un nostro cacciatorpediniere fu a sua volta mandato a picco per errore dal sommergibile italiano Alagi.
A giugno si combatté la Battaglia di Mezzo Giugno, iniziata a seguito dell’invio di convogli alla derelitta Malta.
Sommergibili, naviglio leggero e aerei si opposero in unità d’intenti. I battelli subacquei furono lanciati all’attacco a massa e non ottennero successi, ma si era fatto un passo avanti.
Nella successiva Battaglia di Mezz’Agosto i risultati sono invece straordinari.
I sommergibili manovrano in massa, costituendo sbarramenti mobili. Sono fiancheggiati da MAS e motosiluranti italiane e tedesche. 784 aerei dell’Asse sono pronti a entrare in azione contro i convogli che avanzano in 5 colonne. La prima perdita inglese, gravissima, è quella della portaerei Eagle che, centrata da 4 siluri di un sommergibile tedesco, si capovolge e affonda in pochissimi minuti. Per tutta la mattinata del 12 agosto si susseguono attacchi aerei: gli Italiani esperimentano bombe perforanti da 640 chilogrammi, bombe autopropulse e un trimotore radioguidato. Il sommergibile Cobalto è speronato e affondato da un cacciatorpediniere che riporta gravi danni. Gli aerei tornano all’assalto: è colpita la portaerei Indomitable da velivoli tedeschi; il mercantile Brisbane Star da un sommergibile italiano. Il comandante del sommergibile Axum mette a segno un colpo durissimo. Con una raffica di 4 siluri colpisce una petroliera e gli incrociatori Nigeria e Cairo, quest’ultimo poi affondato. Altri mercantili sono affondati dall’aviazione e a tarda sera il sommergibile Alagi danneggia gravemente l’incrociatore Kenya.
Scende la notte ed entra in azione il naviglio leggero. Una motosilurante italiana colpisce l’incrociatore Manchester, l’unico rimasto illeso, che poi affondò. Il giorno successivo è un susseguirsi di attacchi, durante i quali diverse navi sono affondate o danneggiate. Nel tardo pomeriggio del giorno 13 la Battaglia di Mezz’Agosto è finita. La Squadra navale italiana non ha nessun peso nell’Operazione.
Con l’Operazione Torch la situazione cambia radicalmente e gli Alleati sbarcano in Marocco e Algeria. La guerra nel Mediterraneo è finita, ma i sommergibilisti continuano a morire in una guerra senza speranze contro un nemico tecnologicamente sempre superiore. I nostri battelli sono ora guidati da comandanti venticinquenni che, con un coraggio disperato, entrano nei porti algerini e affondano il naviglio alla fonda. Le perdite aumentano, i migliori equipaggi spariscono per sempre.
Il 29 gennaio 1943 il duce fa sentire la sua voce. Ha 6 navi da battaglia pronte, ma la sua attenzione si sofferma sui sommergibili. Ordina di accelerare la produzione unitamente a quella del naviglio leggero. Conclude sostenendo: “È mia impressione che nel primo periodo di guerra abbiamo avuto le maggiori perdite”.
Il primo soldato d’Italia parla di “impressione”.
Quando gli Alleati, con una gigantesca superiorità di uomini e mezzi, sbarcano in Sicilia, le possibilità di attacco sono ridottissime, devono affrontare una barriera antisom in pratica impenetrabile. Nei mesi di luglio e agosto si persero, con i loro splendidi equipaggi, l’Ascianghi, il Flutto, il Romolo, l’Acciaio, il Nereide, il Remo, il Pietro Micca, l’Argento, il Velella, affondato il giorno precedente l’armistizio.
Radio Algeri alle ore 18,30 dell’Otto Settembre annuncia che l’Italia aveva chiesto la resa.
Alle 19,50 Maricosom comunica: “Alla ricezione del presente ordine, compito esclusivamente ripeto esclusivamente esplorativo”.
Alle 21,10 “Alla ricezione del presente messaggio cessate ogni ostilità alt Accusate ricevuta”.
Alle 21,50 “Immergetevi subito quota metri 80 Alt Alle ore 8 del giorno 9 emergete rimanendo in superficie con bandiera nazionale a riva e pennello nero al periscopio di prora Alt Riceverete ulteriori ordini Alt Accusare ricevuta”.
La mattina seguente è indicato il porto dell’ex nemico verso cui dirigere.
Tutti i sommergibili in grado di navigare obbediscono all’ordine.
L’ultima tragedia si ha quando il Topazio, attaccato erroneamente da un aereo inglese, affonda senza superstiti.
Secondo gli storici Mattesini e Santoni, dall’11 giugno 1940 all’8 settembre 1943 i sommergibili della Regia Marina affondarono 3 incrociatori, un incrociatore posamine, due cacciatorpediniere, un sommergibile, una corvetta, un dragamine di squadra, una motocannoniera, 20 navi ausiliarie e mercantili. Gli U-Boote dal settembre 1941 all’8 settembre 1943: una nave da battaglia; 2 portaerei; 3 incrociatori; 10 cacciatorpediniere; un posamine veloce; un avviso; una corvetta; una cannoniera; 92 navi ausiliarie o mercantili.
Sulla guerra sottomarina Enrico Cernuschi esprime una teoria che chi scrive non condivide, ma che vale la pena di riportare.
Sostiene Cernuschi: “Una guerriglia [quella italiana] il cui scopo, come nel caso di tutte le “piccole guerre” era quello di durare il più possibile impegnando forze avversarie e arrecando, nel contempo, qualche danno episodico. La seconda [tedesca] fu, viceversa, una campagna sottomarina in piena regola, messa in atto approfittando del fatto che le unità subacquee italiane sguarnivano puntualmente (e inevitabilmente) con un notevole dispendio di energie e i consueti modesti risultati complessivi, una considerevole quota delle risorse antisom avversarie. La Kriegsmarine poteva permettersi il lusso di spostare di volta in volta la relativa massa dei propri battelli […] in uno specifico teatro di operazioni […] in base al più elementare principio militare di concentrazione delle forze”.
I MEZZI D'ASSALTO
Specchiatevi nei duelli dei pochi quanto gli italiani siano superiori con le forze, la destrezza e l’ingegno.
Machiavelli
Nel 1935 Teseo Tesei ed Elios Toschi, ufficiali del Genio Navale, idearono, in collaborazione con il silurificio della Spezia, un ordigno che battezzarono “torpedine semovente”, poi classificato “siluro a lenta corsa” SLC.
Si trattava di un siluro, montato da due uomini muniti di autorespiratore, a propulsione elettrica, lungo metri 7,3, largo metri 0,53, con propri organi propulsivi, eliche, timoni di profondità, casse di compenso e di assetto, in grado di navigare a quote variabili fino a 30 metri, con una carica esplosiva di 220 chilogrammi.
L’addestramento degli operatori, dotati di eccezionali doti fisiche e psichiche, era così duro che, nel maggio 1939 del nucleo iniziale ne erano rimasti solo 5. Era portato avanti con criteri severissimi, durava un anno e si svolgeva presso Bocca di Serchio, una base vicino alla Spezia.
Va tenuto presente che, per ogni azione, erano necessari in media sei operatori, i quali difficilmente potevano essere recuperati.
Nello stesso periodo tre ufficiali, l’ammiraglio Aimone Savoia-Aosta e i capitani di fregata Giorgio Giorgis e Calo Margottini, idearono un’imbarcazione a fondo piatto, con una carica di 300 chilogrammi di esplosivo, lunga 5 metri, in grado di raggiungere una velocità di 32 nodi, con un pilota che, sistemato a poppa, si lasciava cadere fuori bordo dopo aver puntato il mezzo contro l’obiettivo. Denominati ufficialmente Motoscafi Turismo Modificati (MTM), erano conosciuti col nome di “barchini”.
Dopo la conquista dell’Impero, il reparto venne “tacitamente smobilizzato”, scrive Borghese, ma gli studi furono ripresi nel 1938 con l’arrivo di un nuovo comandante, il capitano di fregata Aloisi e l’organizzazione fu affidata alla Prima Flottiglia MAS.
Il 20 febbraio 1939, sotto la direzione dell’ammiraglio Campioni si valutò la situazione e fu costituito un nucleo operativo per armare 11 SLC e 7 MTM. Come mezzo di trasporto per il primo fu scelto il sommergibile, definito “sommergibile avvicinatore”, sul quale dopo vari esperimenti, furono montati dei cassoni al posto del cannone; un'unità di superficie per il secondo.
Per una serie di lungaggini, contrattempi e mancanza di attenzione per i rivoluzionari mezzi, la grande occasione di colpire la Royal Navy nelle sue basi in Mediterraneo nel primo giorno delle ostilità, come aveva fatto la Marina giapponese alle Haway, fu perduta.
Le prime operazioni con gli SLC furono un fallimento. La G.A.1, il forzamento del porto di Alessandria si concluse con l’affondamento del sommergibile Iside nella rada di Bomba il 22 agosto 1940. Borghese parla di superficialità e leggerezza nell’approntare il materiale e nel predisporre l’organizzazione, accusando implicitamente l’ammiraglio De Courten, da cui dipendeva all’epoca l’impiego dei mezzi d’assalto.
La G.A.2, prevista per la notte del 30 settembre, obiettivo Alessandria, finisce con un secondo insuccesso, il sommergibile Gondar è attaccato e, dopo una lunga caccia, affondato. L’equipaggio si salva, tra i superstiti vi è il capitano del genio navale Elios Toschi.
Si punta allora su Gibilterra. L’Operazione B.G.1 inizia il 24 settembre con lo Scirè del comandante Borghese, ma Supermarina comunica che la rada è vuota e l’operazione è rinviata.
Nuovo tentativo il 21 ottobre con tre uomini, Birindelli, Tesei e de la Penne, che passeranno alla storia. Hanno tutti problemi con i “maiali”, così battezzati da Tesei e devono abbandonare l’impresa, il primo è fatto prigioniero, gli altri sono portati in salvo da agenti italiani.
Intanto la 1a Flottiglia MAS dal 15 marzo 1941 è riorganizzata, divisa in due reparti: Mezzi subacquei agli ordini di Borghese e Mezzi di superficie agli ordini di Giobbe. Assume il nome di X Flottiglia MAS e passa agli ordini del capitano di fregata Moccagatta, capace organizzatore. Per la tutela del segreto militare si attua il sistema della compartimentazione cellulare: ogni Sezione non conosceva l’attività delle altre.
Il 25 marzo 1941 entrano in azione i barchini nella base navale di Suda, sull’isola di Creta. I cacciatorpediniere Crispi e Sella, dopo due tentativi falliti, si portano a 15 miglia dall’obiettivo, calano in mare in dieci minuti i mezzi che, dopo due ore e mezza di navigazione, “notte buia, stellata, un po’ fosca, mare calmo”, raggiungono l’isola superando una serie di ostruzioni. Sono 6 gli Italiani che vanno all’attacco. I primi due colpiscono l’incrociatore York, parte poi il terzo che sostiene di avere colpito una nave, il quarto che manca il bersaglio, il quinto colpisce la petroliera Pericles, mentre il sesto manca a sua volta il bersaglio.
Negli anni Cinquanta si accerterà che la Pericles era stata colpita su entrambi i fianchi. L’incrociatore, l’unico con cannoni da 203 mm nel Mediterraneo, finirà la sua vita operativa a Suda, colpito nuovamente da aerei tedeschi.
Cunningham scrive: “Mi ha sempre meravigliato quanto [gli italiani] erano bravi in questo tipo di attacchi individuali. Avevano certo uomini capaci delle più valorose imprese”.
L’organizzazione andava sempre più perfezionandosi.
Nel porto spagnolo di Cadice sull’Atlantico si crea una base segreta sulla pirocisterna Fulgor, internata dall’inizio della guerra, nella quale erano imbarcati gli assaltatori giunti direttamente dall’Italia e, quindi, in migliori condizioni fisiche.
L’Operazione B.G.3 inizia il 15 maggio.
Lo Scirè, sempre agli ordini di Borghese, salpa dalla Spezia, arriva a Cadice il 22 e imbarca gli operatori. Riattraversato lo stretto il 26, gli operatori passano all’attacco. Accadono le immancabili difficoltà, il primo siluro si guasta ed è abbandonato, un operatore ha un malore e i membri del secondo siluro devono abbandonare l’impresa per soccorrerlo. Il terzo continua ma il mezzo ha un guasto. L’azione finisce con un insuccesso del quale il nemico non viene a conoscenza.
Ancora oggi molti sub non riescono a spiegarsi come potessero operare gli uomini della X, sottoposti a sforzi fisici eccezionali, con attrezzature primitive.
Nel secondo semestre del 1941 si ha il disastro di Malta in cui muoiono uomini coraggiosi.
Nella notte del 25 luglio, 2 MAS e un avviso veloce portano nelle vicinanze dell’isola i mezzi. Teseo Tesei, imbarcato su un barchino, doveva far saltare le ostruzioni del ponte di Sant’Elmo per permettere agli altri di penetrare nel porto. I mezzi sono segnalati da un radar e un inferno di fuoco li accoglie. Pochi si salvano e sono fatti prigionieri. I 2 MAS al ritorno sono attaccati da aerei e distrutti. Muore il fior fiore della X MAS, Tesei, Moccagatta, Giobbe e il napoletano Falcomatà, al quale sarà intitolata una via della città.
Muore il fior fiore In seguito si riconoscerà che l’operazione era stata organizzata con pochissime informazioni e in modo approssimativo.
Il colpo è durissimo: la X è stata decapitata, Borghese ne assume il comando conservando quello del Reparto subacqueo; Todaro, che si era messo in luce nell’Atlantico, quello del Reparto di superficie.
Intanto a Livorno si crea il “Gruppo Gamma”, nuotatori addestrati per attaccare navi alla fonda anche in porti neutrali.
Il 14 settembre lo Scirè torna in campo. Con 3 SLC arriva a Cadice, imbarca gli operatori e nella notte del 19 riattraversa lo stretto, molla gli operatori e fa rotta per La Spezia. La cisterna Fiona Shell da 2.400 tonnellate si spacca in due, la motonave Durham da 10.000 tonnellate si appoppa, la cisterna militare Denbydale di 15.000 tonnellate affonda.
Informazioni accurate, addestramento ed equipaggiamento perfezionati attraverso un lungo lavoro portano alla vittoria gli uomini della X, nonostante una difesa sempre più potenziata.
A dicembre si ha l’azione che porta la X MAS nella leggenda.
Lo Scirè parte il 3 dicembre per Lero, il 18 si spinge su Alessandria, 3 siluri sono messi in mare, superano le ostruzioni nella scia di un cacciatorpediniere e si dividono nella rada.
Marceglia piazza la carica sotto la chiglia della corazzata Queen Elisabeth e col suo secondo raggiunge la costa, Martellotta è colto da malore, ma il suo secondo piazza la carica sotto una grossa petroliera che sarà fortemente danneggiata insieme al cacciatorpediniere Jervis ad essa affiancato.
De la Penne incontra enormi difficoltà. Perde il suo secondo, da solo trascina il “maiale” con uno sforzo sovrumano per 30 metri, lo sistema sotto la nave prescelta, la corazzata Valiant, sale a galla, è fatto prigioniero e trova il suo secondo che era svenuto. Interrogato ripetutamente rifiuta di rivelare dove ha sistemato la carica, è rinchiuso in un locale della corazzata e, quando mancano 10 minuti all’esplosione, invita il comandante a fare abbandonare la nave. È ricacciato nel locale e a mala pena dopo l’esplosione si salva.
6 Uomini, il maiuscolo è d’obbligo, mettono fuori combattimento 80.000 tonnellate di naviglio militare.
Il comandante in capo della Mediterranean Fleet, ammiraglio A.B. Cunningham non ha remore nello scrivere: “Non si può non ammirare il freddo eroismo di quegli italiani. Ogni cosa era stata accuratamente predisposta e studiata”.
È di pochi giorni fa, giugno 2015, la notizia che l’ammiraglio William McReven, l’uomo che ha organizzato il blitz contro Obama bin Laden, ha pubblicato una ricerca su 8 azioni da manuale condotte dalle Forze Speciali nel mondo. Uno dei capitoli è dedicato agli incursori della Regia Marina che violarono il porto di Alessandria nel dicembre1941.
Vi saranno altre operazioni meno fortunate, anche perché, col passare del tempo, nell’eterna lotta tra l’offesa e la difesa, tra la spada e lo scudo, la sorpresa viene sempre meglio fronteggiata.
Lo Scirè sarà affondato il 10 agosto davanti a Haifa nel corso di un’operazione con “Uomini Gamma”. Gli Inglesi hanno appreso la dura lezione e corrono al riparo con tutta una serie di contromisure tra cui, micidiale, il periodico lancio di bombe di profondità.
A Gibilterra si combatte l’ultima battaglia.
Nella spagnola Algesiras, su cui si affaccia il porto militare di Gibilterra, il 13 luglio, partendo da una villa affittata dal nostro servizio segreto, un gruppo di Uomini Gamma a nuoto arriva nella rada di Gibilterra, applica le cariche ma per il cattivo funzionamento solo 4 piroscafi sono danneggiati. Il 14 settembre si ripete l’operazione, le difficoltà sono enormi, le possibilità di accostare i bersagli aumentano, i Gamma riescono a minare una nave, la Ravens Point, che affonda.
Nello stesso tempo si crea sul piroscafo Olterra, bloccato in Spagna dall’inizio della guerra, una base operativa con un’officina. L’equipaggio viene nel tempo sostituito da operai militarizzati che lo trasformano in una base con siluri e rifornimenti. Con lavori effettuati di nascosto si crea un’apertura nella chiglia per permettere l’uscita dei siluri.
Il 7 dicembre partono gli operatori. La prima coppia entra nel porto, avvistata, fatta segno a bombe di profondità è annientata. La seconda è fatta prigioniera, la terza perde il secondo operatore, il primo torna all’Olterra. La B.G.5 è fallita ma gli Italiani dimostrano il loro valore.
A dicembre, Operazione NA 1, si attacca il porto di Algeri.
L’Ambra, comandante Arillo, parte dalla Spezia, arriva davanti ad Algeri il giorno 11 e mette in acqua 10 Uomini Gamma e 3 SLC. All’alba una serie di esplosioni scuote Algeri. Due piroscafi sono affondati, due danneggiati.
L’impatto psicologico è enorme, siamo alla fine del 1942, gli Italiani combattono.
Il 6 aprile 1943 si rinnova l’attacco a Bona: quello precedente del 12 dicembre, non è andato a buon fine per il mare mosso e Todaro sarà ucciso nell’azione che non riesce, poiché le difese sono troppo forti.
Intanto sull’Olterra si studiano nuove azioni.
Il 7 maggio 1943 inizia l’Operazione B.G.6 che finisce con 3 Liberty gravemente danneggiate in rada. Con il miglioramento dei sistemi difensivi, il rischio per gli operatori è diventato ormai insostenibile, le perdite sono altissime, i migliori sono scomparsi.
Gli Inglesi continuano a pensare ad attacchi condotti con l’ausilio di sommergibili.
Un uomo solo, il tenente Ferraro, agendo in perfetta solitudine, ottenne importanti successi. Accreditato presso consolati italiani in Turchia come diplomatico, immergendosi di notte piazza dei “baulotti” esplosivi sotto navi nemiche, effettua una serie di operazioni, torna in Italia potendo vantare da solo la distruzione di 19.000 tonnellate di naviglio.
Manca un mese all’Otto Settembre, la X MAS entra ancora in azione. Il 4 agosto 3 SLC attaccano Gibilterra e affondano un piroscafo, una petroliera e una Liberty.
In totale questi Uomini hanno affondato o gravemente danneggiato 72.190 tonnellate di naviglio militare e 130.572 di naviglio mercantile, con un costo in materiali inferiore a quello necessario per la costruzione di un sommergibile.
Per carità di patria si omette ogni rapporto con il totale degli affondamenti della Squadra Navale da battaglia.
LA COOPERAZIONE AEREO NAVALE
I DUELLANTI
Nell’estate 1939, in cooperazione con la Regia Aeronautica, la Regia Marina aveva portato a termine le ultime grandi manovre.
Le manovre furono esaltate dal solito Cavagnari, a comprova dell’efficienza dell’Italia fascista ma, in effetti, le due Armi condussero una guerra indipendente esattamente come la Marina e l’Esercito giapponese.
Apparvero subito evidenti le gravissime deficienze nella collaborazione tra cielo e mare e resta un mistero, uno dei tanti misteri italiani, le motivazioni di queste deficienze.
Ad esempio si può citare l’ordine impartito il 20 giugno 1940 da Pricolo ai Comandi periferici perché Aviazione e Marina non ordinassero contemporaneamente ricognizioni nella stessa zona.
Agre querelles caratterizzarono i loro rapporti.
Quando l’11 agosto 1941 Supermarina lamentava che i caccia G.50 a difesa di Taranto in partenza da Grottaglie non erano in grado di raggiungere i ricognitori nemici e chiedeva i Re 2002 e Mc 202: “quando velivoli di tale tipo entreranno in servizio”, Superaereo, estremamente risentito, faceva osservare che il problema: “È da attribuirsi principalmente alla insufficiente e troppo ristretta rete di avvistamento sul mare che non permetteva agli aerei di alzarsi in volo e affrontare l’avversario da una quota superiore”.
Lascia perplessi che, quando il Comando Supremo era chiamato a dirimere i continui contrasti non “ordinava”, ma “pregava” i Comandi delle due Armi, caratterizzati da supponenza, ignoranza di quanto avveniva all’estero, assoluta certezza di essere i migliori, confortati dalla sicumera e dall’ignoranza dei dirigenti politici. A tutto questo si aggiungeva una sostanziale povertà di mezzi: alla data del 10 giugno 1940 gli aerei assegnati alla collaborazione con la Marina erano 202 ricognitori marittimi Cant Z.501 di base a terra, 150 IMAM RO 43 imbarcabili su unità navali, cui si aggiungevano 95 idrobombardieri Cant Z. 506, poi retrocessi al meno impegnativo ruolo di ricognitori.
Inizia la “guerriglia” sul problema della difesa delle navi in navigazione e si scoprono le difficoltà di collegamenti tra cielo e mare. Superaereo il 20 luglio 1940 scrive: “Osservo che pur essendo possibile stabilire il contatto R.T. diretto tra navi e aerei, non si ha un’assoluta certezza che i collegamenti funzionino in ogni caso”. In effetti non funzionavano, basti pensare a Punta Stilo.
Lo storico Ferruccio Botti scriveva che, per tutto il primo anno di guerra, mancarono collegamenti radio diretti tra aerei e navi e tra comandi aerei e terrestri.
Alla fine del 1940 la situazione era disperata. In Grecia le truppe italiane erano in ritirata, in Libia Graziani si era arenato ed era costretto a subire la controffensiva inglese, in mare e in cielo la supremazia nemica era schiacciante.
I Tedeschi arrivano su pressanti richieste del duce che dà l’addio alla “guerra parallela”.
Scrive Machiavelli: “Quando si chiama uno potente che con le armi sue ti venga ad aiutare e defendere […]. Queste arme possono essere utili e buone per loro medesime; ma sono per chi le chiama quasi sempre dannose; perché, perdendo, rimani disfatto; vincendo, resti loro prigione”.
Pricolo, in una nota a Supermarina del 27 dicembre 1940, così chiarisce l’invio del X Fliegerkorps (X Corpo Aereo Tedesco - 10o CAT) in Sicilia e in Calabria: “Condizioni meteorologiche sfavorevoli alla navigazione nel Nord Europa hanno consigliato l’invio di un’aliquota di forze aeree tedesche dalla Germania in Italia per cooperare con la R. Aeronautica alle operazioni aeree”, precisa che: “dipenderanno per l’impiego da Superaereo e saranno perciò inquadrate nell’attività operativa della R. Aeronautica”.
Sembra quasi che la Luftwaffe venisse a svernare nell’assolata Penisola.
Tra il 10 e il 21 gennaio del 1941 nel Mare Nostrum gli Stukas del X Fliegerkorps affondano l’incrociatore Southampton, 3 cacciatorpediniere, un monitore, 3 dragamine di squadra, 17 unità minori, 31 navi mercantili. Danneggiano gravemente la portaerei Illustrious, la corazzata Warspite, l’incrociatore Gloucester.
In una relazione all’Ammiragliato britannico si legge: “I bombardieri in picchiata tedeschi erano apparsi nella zona di operazioni - portando un potente nuovo fattore - del Mediterraneo, dove la indiscussa supremazia della flotta sopra i piloti italiani aveva sino a quel momento reso possibile lo svolgimento dei suoi compiti senza eccessivi rischi”.
Nello stesso periodo la Regia Aeronautica affonda un cacciatorpediniere, una torpediniera, una petroliera, 9 navi mercantili.
L’ammiraglio Iachino in una missiva del 18 maggio 1941 diretta al Capo di Stato Maggiore ammiraglio Ricciardi sostiene: “Occorre che l’Aviazione si decida a creare dei veri e propri Reparti di Cooperazione Navale dislocati in Sicilia e in Sardegna e che si cominci a fare delle esercitazioni di intervento simultaneo e coordinato tra navi ed aerei. È un addestramento e affiatamento da creare ex novo, visto che non lo abbiamo fatto prima della guerra, bisogna bene che lo facciamo ora, accelerando i tempi quanto più è possibile […] sarà sempre una cosa utile per colmare una grave lacuna nella nostra organizzazione navale”.
Finalmente, a metà del 1941, è passato un anno dall’inizio della guerra, si costituisce una commissione formata dall’ammiraglio Fioravanzo e dal generale di brigata aerea Cappa per lo studio del problema. Le conclusioni sono portate al duce che il 14 giugno emana una direttiva nella quale, ricordato: “il prossimo rientro della Vittorio Veneto” e l’aumento della forza aerea disponibile con quella proveniente dalla Grecia”, ritiene possibile: “uno schieramento che consenta di agire con la massa delle forze navali e aeree contro aliquote della flotta inglese in zone ove sia assicurata la protezione aerea […] Con studi ed esercitazioni siano perfezionati e resi quanto più rapidi possibili collegamenti aeronavali”.
Il 17 agosto insiste: “È necessario accelerare i tempi della preparazione. […] Messa a punto definitiva dei collegamenti aeronavali […] Esercitazioni di aerei in volo e navi in moto […] in zone dove si possa escludere l’intervento di forze nemiche. […] è necessario provvedere il rapido spostamento [siluri per aerei] delle modeste disponibilità”.
Il primo ottobre 1941 il Comando Supremo emanava le “Norme generali per la cooperazione aeronavale nel Mediterraneo” stabilendo: L’impiego delle forze navali è strettamente subordinato all’intervento dei reparti aerei nelle loro fondamentali forme di impiego, ricognizione, caccia e bombardamento. Il limite normale di impiego delle forze navali è definito dal raggio utile dell’aviazione da caccia che è attualmente nell’ordine di 110 miglia dagli aeroporti; escluso l’intervento di qualsiasi tipo di velivolo offensivo durante il combattimento navale”.
Resta un fatto: dopo Matapan la flotta non si muove fuori del raggio d’azione della caccia.
Il 15 ottobre, con un documento intestato: “Considerazioni e proposte suggerite dall’esperienza” Cappa e Fioravanzo scoprono la: “mancanza di intimo coordinamento fra Marina e Aeronautica. Ogni forza si è preoccupata essenzialmente dell’impiego dei propri mezzi. Mancanza di fiducia nelle possibilità reciproche”. Conclusione per il funzionamento del comando aeronavale: “Trasferire per l’occasione i due Capi delle due Forze Armate nella stessa sede con alcuni collaboratori”.
Il 5 dicembre 1942, ancora una volta Supermarina entra in contatto con Superaereo per “la protezione dei convogli con gli aerei da caccia”. Si scrive: “I nostri apparecchi da caccia di scorta ai convogli non sono mai riusciti ad intercettare prima dell’attacco gli aerei nemici” e ancora una volta si chiede: “una migliore organizzazione”. Riferendosi anche alla futura portaerei, si sostiene che sulle navi da battaglia e alcuni incrociatori andava istituito un comando per la direzione della caccia: “devono essere attrezzati per assumere l’incarico di dirigere la caccia col sistema direttivo”, consistente nella nomina di un ufficiale col titolo di Direttore di Caccia, coadiuvato da un ufficiale della Regia Aeronautica: “pratico dei reparti cacciatori”. Si continua in una minuta descrizione delle attrezzature e dei materiali necessari tra cui radiotelemetri e radiogoniometri. Tra l’altro si osserva che: “Gli aerei da caccia non sono ancora tutti dotati di apparecchi rtf. trasmittente e ricevente” e: “Lo stato attuale delle comunicazioni rtf. tra le unità navali, specialmente le minori destinate ai convogli e gli apparecchi da caccia sono alquanto precarie”. Si parla poi della caccia notturna, la quale andava munita di radiolocalizzatori col compito principale di attaccare i “bengalieri”, ossia gli aerei inglesi che di notte lanciavano bengala per illuminare i convogli.
Vale la pena di riportare per intero la frase che segue: “Necessità di aerei destinati alla rapida distruzione dei bengala o il loro abbattimento a mezzo di armi automatiche portate dagli aerei stessi”.
Il tutto accompagnato da un “Regolamento per la cooperazione tattica tra FF.NN ed aerei da caccia di scorta” composto da 12 capitoli che vanno dai: “Compiti della caccia di scorta di giorno” a “Addestramenti e esercitazioni”.
Con una Nota del Comando Supremo che chiede: “La nomina di una commissione per definire norme e modalità di impiego”, il documento perviene alla Regia Aeronautica che risponde il 23 dicembre 1942. Per gli attacchi di giorno si respingono le accuse della Marina. Si riconosce: “L’inefficienza totale - o quasi - della difesa contro gli attacchi aerei notturni” per mancanza o inidoneità dei mezzi a disposizione. Si parla di caccia notturni in corso di realizzazione, di radiolocalizzatori a bordo di aerei in corso di studio e si riconosce che i collegamenti rtf. tra aerei e navi di scorta hanno avuto risultati pressoché negativi.
Per il Direttore della Caccia, la difesa corporativa è una componente delle forze armate, la risposta è tassativa: “non potrà che essere un ufficiale della R.A. sia nelle navi maggiori che in quelle minori”. Tutte le altre proposte avanzate dalla Regia Marina sono respinte. Si lamenta che la Marina ha inoltrato il rapporto al Comando Supremo senza sentire prima Superaereo e si finisce accusandola: “di una certa tendenza autonomista in fatto di cooperazione aeronavale”.
Si entra nel terribile 1943, le sorti della guerra sono ormai decise per l’Italia.
In una Nota del 12 gennaio, Superaereo riconosce che durante le ore notturne: “Le nostre unità mancavano di protezione aerea” e assicura che: “in azione similare a scopo diversivo” gli aerei nazionali sarebbero stati dotati di bengala per disorientare gli aerei “bengalieri” nemici, sempre assicurando: “sono allo studio provvedimenti atti a contrastare l’offensiva nemica”.
Va riportata un’analisi strategica di Superaereo che, in uno Studio Operativo del 21 febbraio 1943, sostiene: “Gli Inglesi hanno la preminenza nel Comando angloamericano nonostante le contrarie apparenze” e vaticina: “perdite notevoli sia per l’occupazione delle isole che per lo sbarco in continente” e, per finire: “L’esercito inglese […] sarà tra breve il più potente esercito d’Europa”.
Finalmente una buona notizia.
Il 13 luglio 1943 lo Stato Maggiore Aeronautica Superaereo comunica agli equipaggi una nota di Supermarina che si congratula per la: “puntualità e la perfezione che hanno destato l’ammirazione di tutti” per: “il trasferimento di due navi da battaglia da Genova alla Spezia e viceversa”.
Lo Stato Maggiore R.Aeronautica IV Reparto in data 9 agosto sostiene che la messa a disposizione delle FF.NN di Battaglia di Gruppi da caccia: “per il corretto impiego”, è possibile solo: “attraverso un severo addestramento. Ma nella pratica attuazione dell’addestramento si è rilevato che manca una stretta relazione trai i Comandi Aerei che impiegano la caccia di scorta e quelli Navali che ne usufruiscono”.
Mancano trenta giorni all’otto Settembre.
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Esempio eclatante delle dispute tra le due Armi fu l’aerosilurante.
Per tutto il ventennio, l’Aeronautica svolse una sorda opposizione agli aerosiluranti ben comprendendo come fossero adatto solo alla guerra sul mare e temendo, in conseguenza, la rinascita dell’aviazione marittima.
Scriveva Nemo, sotto il cui pseudonimo si nascondeva il generale Ajmone Cat: “Le squadriglie aerosiluranti proponendosi candidamente lo scopo di affondare le navi nella battaglia navale, secondo modalità di impiego aereo decisamente condannabili e con esigenze orarie molto difficilmente realizzabili, si presentano dunque come una specializzazione creata esclusivamente per un intervento ipotetico e discontinuo, legato alla altrettanto ipotetica e discontinua azione delle forze armate di superficie”.
Il personale intervento di Badoglio non portò a mutamenti. Valle sostenne che il siluro per aereo era: “Il mezzo meno efficace e di minore rendimento” di quelli a disposizione.
Conseguenza il 10 giugno 1940 nessuna struttura erta stata organizzata, nessun aereo era disponibile per volare con i 15 siluri esistenti.
Badoglio scrisse, ma a posteriori: “Ma una grave lacuna non può passarsi sotto silenzio: la mancanza di numerosi, solidi e ben addestrati reparti aerosiluranti. Io avevo caldamente e ripetutamente patrocinato la costituzione di tali reparti”.
Non va dimenticato che i poteri del Capo di Stato Maggiore Generale erano vagamente indicati e che spesso i capi di stato maggiore delle tre Armi lo scavalcavano conferendo personalmente con Mussolini.
Supermarina sosteneva essere necessario per l’Aeronautica: “con organicità di criteri e in stretto accordo con la Marina (Emilio, qui manca un verbo) la specialità aerosiluranti destinandovi personale adatto il quale - ad eccezione dei piloti - non può che essere fornito dalla Marina”, aggiungeva che il comando spettava all’ufficiale osservatore. L’Aeronautica era perentoria nella risposta: “È l’aviatore e non il marinaio che deve colpire la nave”.
Lo scontro per la formazione degli equipaggi andava a iniziare.
Si dovette attendere l’arrivo del generale Pricolo al comando dell’Aeronautica perché il problema fosse affrontato. In mancanza di meglio fu adattato il bombardiere trimotore Savoia Marchetti S.M79, pure essendo lento e con una grande superficie esposta al fuoco.
Secondo Giovanni De Lorenzo: “Manifestò alcune accettabili manchevolezze nel sopportare agevolmente il previsto carico bellico […] fu constatata una certa insufficienza protettiva per la scarsa efficacia balistica delle armi SAFAT.”
Nel luglio 1940, fu costituito un Reparto Sperimentale Aereo presso l’aeroporto di Merna di Gorizia con 6 trimotori. L’11 agosto arrivò la notizia che 5 aerei dovevano partire per Roma armati di siluri. Pricolo spiegò ai piloti che erano stati scelti per un’azione su Alessandria, un’azione non studiata, non organizzata e con equipaggi privi di esperienze belliche.
Il ricordo va a Taranto e alla preparazione che precedette l’attacco.
Il 15 agosto, gettati allo sbaraglio, in 2 pattuglie partirono da Tobruk e arrivarono sull’obiettivo. 3 aerei superarono lo sbarramento della contraerea e due lanciarono il siluro, mentre la seconda pattuglia non riuscì a raggiungerlo. Al ritorno, per l’esaurimento del carburante, un velivolo fu catturato ancora con il siluro, altri due fecero un atterraggio fuori campo.
Maturata l’esperienza, i risultati migliorarono, e con una dozzina di velivoli furono causati gravi danni al naviglio inglese. L’incrociatore pesante Kent e l’in crociatore leggero Liverpool furono attaccati e gravemente danneggiati. In seguito toccò alla corazzata Nelson.
Il 12 ottobre si costituisce il 1°N.A.S. (Nucleo Addestramento Siluranti), che forma gli equipaggi e perfeziona attrezzature e tecniche di lancio.
Il 24 novembre 1940 è trasmesso a Superaereo un promemoria che la Regia Marina aveva inviato direttamente al duce in merito alla costituzione di reparti aerosiluranti: “Per questa via sarà probabilmente possibile ostacolare in maniera sensibile e forse decisiva la libertà di movimenti delle forze navali inglesi”. Si aggiunge: “La Marina è disposta a dare tutte le armi suscettibili di essere impiegate anche se questo dovrà incidere per forza sull’efficienza delle sue siluranti […]. Per la prossima primavera la Marina calcola a circa 200 i siluri disponibili, per i quali andavano preparati almeno 50 velivoli del tipo più adatto con relativi equipaggi”. Si conclude: “I migliori risultati sono sempre stati ottenuti dai velivoli sui quali era imbarcato il più provetto ufficiale della Marina, osservatore specializzato in aerosiluranti. Potrebbe essere disposto al più presto un nucleo di ufficiali osservatori specializzati per il particolare compito”.
Pricolo risponde il 6 dicembre 1940 precisando che il velivolo S.M.79 è: “bene adatto a tale forma di impiego” con installazioni speciali che richiedono due mesi di lavoro e che il nuovo apparecchio da bombardamento S.84: “è già per costruzione idoneo allo scopo, senza speciali
adattamenti”. Per gli equipaggi risponde: “Non esistono particolari difficoltà con il contributo spontaneo offerto dalla R.Marina in Osservatori e Specialisti”.
L’S.84 “non riscosse, a differenza di quest’ultimo [l’S.M.79] le simpatie dei piloti” si legge in “I bombardieri della seconda guerra mondiale” di Corrado Barbieri.
Pricolo aveva valutato in precedenza l’S.M.79: “Un apparecchio difficile, detto del bel tempo, perché era instabilissimo e in aria appena agitata non consentiva di lasciare il volante neppure per un attimo”19.
Nel gennaio 1941 si forma a Gerbini presso Catania il primo reparto. Ha in dotazione sei aerei ed è composto da personale delle due Armi. Nel tempo la specialità si rafforzerà e gli equipaggi si batteranno per tutta la durata del conflitto con alterne vicende.
Con i “se” e con i “ma” non si fa la storia; ma uomini di ben altro spessore, capaci di vedere lontano, avrebbero consentito a questa specialità risultati più incisivi.
MALTA
Impresa difficilissima, l’isola è come un istrice.
Generale Roatta
La Marina italiana già nel 1936, con il documento Di.Na. (Direttiva marittima) ZERO, aveva ritenuto necessaria l’occupazione dell’isola, occupazione che ripropose nel 1938 con il Documento Zero e nella DG 10/A2. Il 18 giugno 1940 il piano fu riesaminato e si arrivò alla conclusione che la vittoria era: “Imminente e sicura” con conseguente rinuncia a un’operazione: “inutilmente costosa” e per la quale, va aggiunto, non era stato predisposto un piano dettagliato.
La necessità dell’occupazione ebbe un peso diverso secondo le fasi alterne della guerra.
In una bibliografia sulla Regia Marina Enrico Cernuschi, in riferimento alla Sezione sulla guerra anfibia, osserva: “Il titolo di questa sezione [Colpi di mano anfibi] tradisce, già di suo, il livello relativamente limitato della guerra anfibia italiana durante l’ultimo conflitto mondiale. La grande occasione sarebbe dovuta essere rappresentata dall’invasione a viva forza di Malta, un’impresa che (probabilmente per fortuna) non fu mai tentata”.
Malta era difesa da 3 Gladiator, 34 cannoni pesanti e 8 leggeri, 2 impianti radar. Lo Stato Maggiore britannico, a differenza dell’ammiraglio Cunningham, la dichiarava indifendibile, Churchill non era d’accordo e, come sempre, la sua volontà prevalse. Passò la prima notte di guerra, passarono i giorni, i mesi, gli anni e nessuna nave si profilò all’orizzonte dell’isola a 50 miglia da Catania. Le corazzate italiane entrarono nel porto di La Valletta solo l'11 settembre 1943.
I Tedeschi non si facevano illusioni, l’ammiraglio Weichold scriveva: “Gli italiani si rifiutano di prendere in considerazione ogni operazione di sbarco a Creta o a Malta”. All’unisono lo Stato Maggiore della Marina germanica: “Al di fuori delle possibilità italiane”.
Contro Malta il Comando Operativo della Regia Aeronautica destinò la II Squadra Aerea, che si trasferì in Sicilia dal Veneto e cominciò le azioni belliche l’11 giugno. La sua efficienza era di 137 bombardieri S 79, 69 caccia CR 42 e MC 200, 3 idrosoccorsi Cant Z 506.
Per quasi tutta la durata della guerra la piccola isola fu sottoposta a un assedio per via aerea, d’intensità minore o maggiore secondo la situazione. La difesa fu gagliarda: ben presto i tre vecchi caccia Gladiator furono sostituiti da aerei moderni e da un sistema di reazione che la trasformò in una spina nel fianco. Da Malta partivano infatti sommergibili, aerei e naviglio di superficie che agiva con successo contro i convogli diretti in Libia.
Finalmente Cavallero, nell’ottobre 1941, si convinse dell’assoluta necessità di occupare Malta.
Nel gennaio 1942 si riunirono a Garmisch i vertici navali italo tedeschi che concordarono su questo obiettivo: “Per il caso che si verifichino in futuro circostanze favorevoli all’operazione”.
Inizia l’addestramento dei reparti mentre la Luftwaffe intensifica gli attacchi aerei.
Avuta la risicata approvazione di Hitler e quella piena di Mussolini, iniziano dunque gli studi per l’Operazione battezzata dagli italiani C 3, mentre per i tedeschi era denominata “Operazione Hercules”. Continua intanto l’assedio aereo con bombardamenti di intensità sempre più forte. Per i difensori la situazione diventa disperata, anche perché l’afflusso dei rifornimenti è ostacolato intensamente dalle aeronautiche dell’Asse. Il 22 maggio il Comando supremo chiede all’Esercito, alla Marina e all’Aeronautica “Le possibilità operative al riguardo”.
La Marina il 26 maggio risponde: “L’investimento delle isole maltesi rappresenta senza dubbio una delle operazioni più difficili che si possano tentare, perché la difesa dell’isola può essere ritenuta come una delle massime concentrazioni di potenza difensiva esistente al mondo”. Parlando di campi minati, reticolati con corrente ad alta tensione, batterie in cupole corazzate e in caverna, aggiunge che la mancanza del permanente dominio del mare consiglia di non fare assegnamento sopra l’invio di rinforzi nei giorni successivi al primo sbarco. Valuta in 15.000 i difensori, a 35-40.000 gli uomini necessari per il corpo di spedizione, esclusi i reparti paracadutisti. Elenca i mezzi navali per lo sbarco e sostiene: “La preparazione di un sistema di trasporti del genere richiederebbe ovviamente molti mesi e non potrebbe facilmente essere tenuta segreta. La sorpresa possibile solo in una notte invernale”. Termina segnalando: “l’impossibilità di radunare tanti mezzi di trasporto” senza l’aiuto della Germania.
Per la mancanza di una dottrina d’impiego e di naviglio da sbarco ci si orientò su motozattere tedesche e sulla costruzione in Italia di pontoni con motori di automotrici ferroviarie, ai quali andavano aggiunti i vaporetti per il traffico a Venezia e i traghetti dello Stretto di Messina.
Il Comando supremo, in una nota dell’8 aprile 1942, valuta che: “Le forze terrestri complessive da noi impiegate dovranno essere, all’incirca, il doppio di quelle avversarie”. Richiede inoltre ai Tedeschi una divisione di paracadutisti, carri armati, una cinquantina di semoventi per il trasporto dei carri armati, la permanenza in Sicilia del II CAT, oltre a nafta per la Marina e carburante per l’Aeronautica.
Continua intensissima l’offensiva italo tedesca: le difese aeree sono quasi annullate, il porto di La Valletta è praticamente distrutto, la situazione è così disperata che le munizioni per la contraerea sono razionate.
A giugno si ha la battaglia di Mezzo Giugno. Solo 2 piroscafi raggiungono Malta, la cui difesa è affidata a un reggimento locale, oltre a 8 battaglioni di truppa su due brigate, 6 carri armati leggeri, 2 batterie da campagna e un reggimento di difesa costiera con cannoni dal calibro massimo di 152 mm.
Tutto è pronto quando, improvvisamente, il 21 giugno Tobruk cade nelle mani di Rommel che vi trova una massa enorme di rifornimenti. Hitler si lascia convincere da Rommel, scrive una lettera a Mussolini, parla di: “ora storica”, cita: “La dea della fortuna”, “consiglia” caldamente di rinunciare allo sbarco. Il duce non può non essere d’accordo, l’Operazione C 3 è abbandonata, ma Rommel si arena a El Alamein.
Il 20 ottobre Mussolini confida al maresciallo Cavallero: “Sapete, tutto considerato, sono venuto nella conclusione che invece di avanzare su Marsa Matruh era meglio fare l’operazione su Malta”.
Per l’ammiraglio Bernotti: “L’operazione di Malta, mentre si sviluppavano i preparativi, era sostanzialmente pregiudicata dalla mancanza di risoluta e concorde volontà fra i comandi supremi delle Potenze dell’Asse”.
LA PORTAEREI
Per l’impiego dell’aviazione al disopra dell’Oceano, una nave portaerei è indispensabile.
Clément Ader 1895
Sulla portaerei per la Regia Marina i pareri sono ancora oggi divisi.
Di certo i capi della Marina non ne sentivano la necessità, nella certezza assoluta che la flotta era inaffondabile agli attacchi aerei.
Sbagliava Italo Balbo quando perentoriament,e all’ammiraglio Bernotti, nel 1929 sbatteva in faccia: “Voi volete la nave, ma io non ve la faccio costruire”, perché gli ammiragli “non” volevano la nuova nave perché non ne afferravano le potenzialità.
Quando Mussolini, non ancora duce onnisciente, si presentò alla riunione del Comitato degli ammiragli l’11 agosto 1925 con le parole “Sono qui per imparare”, argomento in discussione la nave portaerei, ebbe, a corale risposta “che la nave portaerei non fosse né necessaria né utile, tenendo conto, soprattutto, delle ristrettezze del presumibile bacino operativo”.
L’ammiraglio Fioravanzo, noto studioso navale, testa pensante della Regia Marina, non era da meno. Scriveva nel 1925: “Dal punto della possibilità dell’esecuzione di attacchi costieri […] dominiamo tutto il Mediterraneo, eccetto una breve zona a levante di Cipro dove è la base francese di Beirut e l’entrata del canale di Suez e la porzione del Mediterraneo a ponente di Maiorca”.
Va aggiunto che l’imbecillità non era sola dei marinai. Nella seduta congiunta del 26 dicembre 1927 sui rapporti di collaborazione tra Aeronautica e Marina il Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica generale Armani se ne uscì con una battuta: “Ma il Mediterraneo per noi è una pozzanghera!”.
Gli anni Trenta furono per la portaerei un periodo di consolidamento delle esperienze fatte. Gran Bretagna, Giappone e Stati Uniti d’America potenziarono sempre di più questo strumento, partendo dal principio che una flotta priva di portaerei sarebbe stata in condizioni di grave inferiorità nei confronti di una flotta dotata di portaerei. Si arriverà al trionfo della portaerei nella battaglia del Mar dei Coralli del maggio 1942, quando due flotte si affronteranno oltre l’orizzonte esclusivamente con velivoli imbarcati.
Le alte gerarchie marinaresche non avevano dubbi. L’ammiraglio di Giamberardino con linguaggio aulico nel 1937 scrive in L’arte della guerra in mare: “La superba nave, aspirante con i suoi nuovi mezzi a un dominio brillante del mare, può cangiarsi invece rapidamente in un falò sulle acque inconquistate, e sparire irrimediabilmente, prima ancora di avere reso il minimo servizio”. Aggiunge: “Tra le varie unità effimere nate nel disordine del dopoguerra, la portaerei è la più vulnerabile, la più illogica, la meno adatta per muoversi”.
ll sigillo finale a questo capolavoro di politica navale lo diede Cavagnari che, in un discorso del 15 marzo 1938, ripeté il rifiuto della portaerei, facendosi interprete del convincimento generale della Regia Marina. Nello stesso anno Iachino scrisse nella Premessa all’Almanacco Navale Italiano: “Discutibile la necessità delle navi portaerei specialmente per Marine destinate a operare prevalentemente in mari ristretti”.
Nel suo Tramonto di una grande marina, scritto nel dopoguerra, Iachino afferma che: “Chi aveva idee proprie, e non intendeva rinunciarvi, fu indotto al silenzio e tenuto in disparte. Si venne così a spegnere a poco a poco in Marina il fecondo spirito di iniziativa individuale del passato, e vi si sostituì una diffusa tendenza al conformismo”.
Viene da domandarsi se le idee sulla portaerei non erano determinate dalla carriera. Di certo Iachino non fu “tenuto in disparte”.
Sansonetti, nel Brassey’s Naval Annual: “[La Marina italiana] aveva precorso i tempi perché, fidando di un prevedibile e rapido progresso dell’Aviazione, si era astenuta dall’incorrere nelle forti spese che avrebbe comportato la costruzione di un tipo di nave non indispensabile alla particolare situazione strategica dell’Italia”.
Ad esempio dello spessore di questi uomini che avevano portato una splendida gioventù a morire per mare, va aggiunto che Cavagnari scriveva il 19.4.1948 al Capo di Stato Maggiore della Marina: “Certo nella mia opera […] possono rivelarsi anche in questo campo manchevolezze che non ripeterei […] Ma, proprio per questa mia esperienza, che non è stata di un solo giorno, io vorrei rivolgere ai miei successori una esortazione: la questione del possesso di una Aviazione, integralmente e assolutamente propria, è fondamentale per la Marina”.
Verso la fine del 1940, la Marina, alla luce degli avvenimenti che si susseguivano, riprese i piani del 1936 per la trasformazione di una nave in portaerei. Il transatlantico Roma fu requisito ma il 27 gennaio 1941 il progetto fu abbandonato.
Dopo il disastro di Matapan intervenne personalmente il duce.
Il 9 luglio 1941 nella riunione dei massimi vertici fu presa la decisione definitiva: la Regia Marina, a un anno dall’inizio della guerra, vuole la portaerei.
L’impresa comportava difficoltà estreme per una Marina e un’industria cantieristica prive di esperienze. Ampia autonomia, depositi munizioni e carburanti, capacità d’imbarco e sistemazione dei velivoli, autodifesa contro attacchi aerei presentano una serie di problematiche che andavano risolte guerra durante.
Per primo si trasforma il nome della Roma in Aquila, forse ritenendolo più bellicoso e si chiedono 34 cacciabombardieri imbarcabili alla Regia Aeronautica, specificando che i velivoli dovevano avere le ali ripiegabili.
L’Aeronautica fa sapere che ci vorranno circa 2 anni per lo studio e la soluzione del problema e preliminarmente precisa che i piloti devono essere dell’Arma. La durata dei lavori è calcolata in circa 9 mesi, poi saliti a 15: si trasforma la prua, è completamente sostituito l’apparato motore, si costruisce un’aviorimessa di 160 metri, la lunghezza del ponte di volo è fissata in 211 metri, larghezza 20. Con un dislocamento di 27.000 tonnellate, la velocità avrebbe raggiunto i 30 nodi. Era previsto un armamento antinave e antiaereo con 8 torri singole scudate da 135/45 e ben 132 mitragliere Breda da 20/65.
Nell’estate 1942 s’inizia a esperimentare l’appontaggio su una normale pista di volo con la sistemazione di cavi in uso sulle portaerei. L’aereo prescelto è il Re 2001 Falco II con un motore tedesco; il reparto è il 160° Gruppo Caccia. Lavori e addestramento proseguono fino all’estate 1943, poi tutto è travolto dall’8 Settembre.
Nel luglio 1942 si requisisce un altro transatlantico l’Augustus, ribattezzato prima Falco e poi Sparviero. I lavori iniziano, ma sono sospesi nell’aprile 1943. Nella sopraggiunta “febbre” per le portaerei si decide anche la trasformazione dell’incrociatore pesante Bolzano, gravemente danneggiato da un siluro, ma non si andò oltre allo stato preliminare. Sembra singolare che sul Bolzano, il cui nome non fu cambiato in quello di un pennuto, non era previsto l’appontaggio in quanto gli aerei, levatisi in volo, dovevano raggiungere la più vicina base.
Pur nel clima di improvvisazione e di pressapochismo che caratterizzò l’azione della Regia Marina, si pensi che la Marina britannica aveva iniziato studi ed esperienze nel corso della Grande Guerra, viene spontaneo domandarsi quanto tempo sarebbe passato prima dell’entrata in servizio dell’italica portaerei, quanto tempo sarebbe passato per l’addestramento del reparto aereo, quanto tempo sarebbe passato per la risoluzione degli innumerevoli problemi tecnici per una marina completamente all’oscuro sulle tecniche costruttive e addestrative che il nuovo mezzo comportava.
In questo clima di piatto conformismo, fa specie leggere La portaerei a firma di Lionello Nonnio, pubblicato sulla rivista “La Vita Italiana” nel 1938.
L’autore dichiara perentoriamente e senza perplessità che la portaerei è: “L’unico mezzo che permette di realizzare un’efficace collaborazione aereo-marittima”. Passa poi a un accurato esame delle unità in servizio o in costruzione nelle Marine statunitense, inglese, giapponese e dell’unità francese. Valuta, con estrema chiarezza, quelle che dovrebbero esserne le caratteristiche ideali: “nave dell’avvenire […] potrebbe imporre al nemico la sua volontà nel campo strategico e tattico”.
Respinge l’idea che: “in bacini ristretti […] una ben organizzata catena di aeroporti possa surrogare la portaerei”, rilevando le difficoltà di: “un continuo e difficile spostamento di una rilevante forza aerea, destinata esclusivamente a collaborare con le forze navali, da un aeroporto a un altro.”. Conclude con la necessità di includere due portaerei, una per ogni Squadra Navale: “al più presto nell’immediato ciclo delle costruzioni navali”.
Nel corso dell’articolo l’autore scrive, e strappa un sorriso alla luce del bombardamento di Genova del 1941: […] non potrà operare nelle vicinanze delle coste nemiche per azioni di bombardamento di centri strategici industriali e demografici, poiché essa nel viaggio di ritorno si troverebbe esposta, vulnerabilissimo bersaglio, alle reazioni delle forze navali e. particolarmente, aeree dell’avversario”.
LA FINE
Di tutti gli Stati infelici o infelicissimi quello d’uno principe o d’una repubblica, che è ridotto in termine che non può ricevere la pace o sostenere la guerra: a che si riducono quelli che sono dalle condizioni della pace troppo offesi; e, dall’altro canto, volendo fare guerra, conviene loro o gittarsi in preda di chi gli aiuti o rimanere preda del nemico. Ed a tutti questi termini si viene pe’ cattivi consigli e cattivi partiti, dal non aver misurato bene le forze sue.
Discorsi sulla prima deca di Tito Livio.
Niccolò Machiavelli .
Supermarina dopo la perdita dell’Africa, di fronte alla possibilità di uno sbarco in Sicilia, escluse tassativamente l’intervento della Squadra Navale da battaglia dall’Alto Tirreno in cui si era rifugiata, per l’inadeguatezza di una forza aerea di accompagnamento.
Quando Pantelleria innalzò bandiera bianca (per la prima volta nella storia un’isola fortificata si arrendeva a seguito di bombardamenti), apparve evidente che la guerra era finita, apparve evidente che la resistenza morale del paese era stata spezzata.
Un’ulteriore, ma non necessaria prova, si ebbe quando le truppe americane entrate in Palermo, benché la guerra non fosse ancora finita e i soldati palermitani ancora combattevano e morivano, furono accolte con frenetici applausi dalla cittadinanza.
Per Pantelleria, quella che doveva essere la Malta italiana, erano state attrezzate una serie di strutture difensive tra cui spiccava un aeroporto in caverna e un grande deposito munizioni. La difesa antinave si basava su 3 batterie da 152 mm con 12 cannoni, 3 da 120 con 13 cannoni e 2 con 12 cannoni da 90 mm. Quella antiaerea aveva in dotazione 14 batterie con pezzi da 76 mm.
Dall’8 maggio iniziarono i bombardamenti aerei seguiti dopo un mese da un bombardamento navale di incrociatori e cacciatorpediniere e da altri attacchi aerei d’intensità sempre maggiore. L’ammiraglio Pavesi chiese a Roma alle ore 3,55 dell’11 giugno l’autorizzazione alla resa che Mussolini dispose dover avvenire lo stesso giorno alle 12. Ma il comandante della guarnigione ne aveva avuto abbastanza e alle 11 alzò la bandiera bianca. La vicina Lampedusa si arrese al pilota di un aereo alleato costretto all’atterraggio per mancanza di carburante.
Si attende l’invasione del suolo nazionale.
In Sicilia Augusta, sulla carta, avrebbe dovuto essere un osso duro per l’invasore. La piazzaforte aveva 6 batterie costiere di grosso e medio calibro, con pezzi da 381, 254 e 152 mm, 17 batterie contraeree e due pontoni armati; ma l’ammiraglio Leonardi, comandante della piazza, l’abbandonò precipitosamente, seguito o preceduto dai militi della Milizia contraerea, in massima parte siciliani, che il duce aveva disposto che fossero fatti affluire in Sicilia da tutta l’Italia per difendere la loro terra e le loro famiglie.
Supermarina, la cui inattività insospettiva l’alleato, organizzò una puntata offensiva contro l’invasore. L’ammiraglio Oliva, alla testa della VII Divisione incrociatori leggeri Eugenio di Savoia e Raimondo Montecuccoli, senza scorta di cacciatorpediniere, naviga verso Palerm; ma all’altezza di Ustica, dopo aver aperto il fuoco contro mezzi da sbarco, torna sui suoi passi essendo venuta a mancare la sorpresa. Supermarina non deflette e dispone la ripetizione dell’operazione. Questa volta tocca all’ammiraglio Fioravanzo con l’VIII Divisione con la solita precisazione: “Se c’è avvistamento continuato per la strada, si rinuncia”. Quando durante la navigazione un ricognitore tedesco segnalò non identificate navi nemiche, Fioravanzo torna sui suoi passi.
Nel suo Decima flottiglia nostra, Nesi dà una versione diversa: “Gli incrociatori dell’Ottava Divisione navale ebbero l’ordine di attaccare le navi angloamericane ancorate nelle acque di Palermo. L’ammiraglio arrivò davanti a Palermo e, per le condizioni atmosferiche sfavorevoli, non attaccò, temendo di arrecare più danni alla città che al nemico e tornò a Taranto”.
A un mese dall’armistizio la Regia Marina aveva in forza le corazzate Roma, Italia ex Littorio, Vittorio Veneto, Doria e Duilio, oltre al Cesare in stato di approntamento.
Va ricordato che nessuna corazzata fino all’8 Settembre era stata affondata bandiera al vento nel corso di un combattimento.
Gli ammiragli, scadenti anche sotto un piano politico, in una guerra gigantesca nella quale i vincitori chiedevano ai vinti una resa senza condizioni, nella quale si apprestavano a occuparne il suolo e a distruggerne gli ordinamenti politici, ritenevano che le sei corazzate avessero un potere politico, fossero un potente atout da calare sul banco delle trattative della prossima pace. Si scriveva nel Promemoria n.31 del 31 luglio: “La forza navale bella e potente negli elementi costitutivi […]”.
Le “belle navi” finirono i loro giorni relegate nei Laghi Salati a Suez.
Fu ai primi di agosto che il generale Castellano, sconosciuto generale di brigata il cui solo merito era di fare parte dell’entourage di Ambrosio, per ordine di Badoglio iniziò in Spagna le trattative per l’armistizio, firmato poi a Cassibile il 3 settembre. Sul destino della flotta, ossia della Squadra Navale, Castellano si raccomandò: “Che la forma sarebbe stata per quanto possibile non offensiva”.
Gli avvenimenti si susseguono in un clima d’incredibile confusione.
Il giorno 6 de Courten viene a conoscenza del “Promemoria n.1” del Comando Supremo. Narra nelle sue Memorie: “Le trattative per l’armistizio erano dunque già così avanzate da consentire la formulazione di -istruzioni- per i movimenti della flotta verso le basi anglo-americane, prevedendo persino misure di disarmo?”. Sempre nelle Memorie, sostiene di avere violentemente protestato, ritenendo che si potessero intavolare trattative, ignorando, forse, che a Casablanca gli Alleati avevano parlato di “resa incondizionata”.
Sembra a chi scrive che l’ammiraglio non si rendesse conto che anche la Marina era stata sconfitta in modo catastrofico.
La lotta degli ammiragli per le “loro” corazzate fanno venire alla mente vecchie signore che, dopo aver gelosamente conservato i loro gioielli in tempi di crisi, sono costrette a privarsene senza alcun utile.
Il 7 settembre l’ammiraglio convoca a Roma i vertici della Marina. L'ammiraglio Bergamini si dichiara pronto all’ultimo scontro e a immolarsi con le corazzate.
Arrivano voci di uno sbarco alleato nella penisola.
L’8 Settembre De Courten ordina alla Squadra Navale di tenersi pronta a muovere verso Salerno e comunica la decisione ad Ambrosio, che lo invita ad attendere gli sviluppi della situazione.
Nella stessa mattinata manda a Frascati presso la sede dell’OBS (il comando tedesco) un suo ufficiale per ottenere una scorta aerea per l’ultima battaglia. Bergamini alle 15 riunisce a Genova i suoi ammiragli e ordina l’autoaffondamento delle navi se in pericolo di cadere nelle mani alleate o tedesche.
Intanto Badoglio, pressato da Eisenhower che rifiuta un rinvio della proclamazione dell’armistizio, riunisce a Roma i massimi capi militari i quali s’indignano per essere stato tenuti al di fuori dello svolgimento delle trattative, Alle 19,45 Badoglio porta a conoscenza del popolo italiano l’armistizio. De Courten lamenta che: “[…] l’entità degli organi di controllo e delle misure di disarmo delle unità navali è lasciata al completo arbitrio delle autorità alleate, senza nessuna limitazione” e minaccia l’affondamento della Squadra. Ambrosio lo rabbonisce ricordandogli che le misure saranno addolcite se l’Italia combatterà contro i Tedeschi.
Il ministro della Marina osserva che la Squadra Navale avrebbe potuto dare un formidabile contributo alla guerra in Pacifico con le tre modernissime corazzate Vittorio Veneto, Italia (ex Littorio) e Roma, naturalmente con equipaggi italiani anche perché, a suo giudizio, le marine alleate avevano solo 6 navi da battaglia della stessa potenza. La Royal Navy all’epoca contava su 4 corazzate da 35.000 tonnellate: King George V, Duke of York, Anson e Howe, la Marina Statunitense su 6 navi da battaglia, oltre a 4 modernisime tipo Missouri da 45.000 tonnellate.
Va aggiunto che il “peso” delle corazzate era molto diminuito con l’avvento della portaerei, nuova capital ship.
A dimostrazione dello stato delle conoscenze dei reggitori della Marina va ricordato che l’ammiraglio Riccardi, il 29 giugno 1943, per illustrare la modernità della flotta inglese scrive: “Ora abbiamo di fronte soltanto corazzate moderne (Nelson e Rodney) o modernissime (Prince of Wales e Howe)”, dimenticando o non sapendo che la “modernissima Prince of Wales” era stata affondata il 10 dicembre 1941 da un molto propagandato attacco aereo giapponese.
De Courten si riserva di comunicare le sue decisioni, torna al Ministero della Marina e comunica ai suoi dipendenti che si atterrà alle decisioni del re, li saluta, prepara i bagagli e parte con l’ex imperatore d’Etiopia per Pescara per imbarcarsi sulla corvetta Baionetta.
Per maggior conforto si consulta col Grande Ammiraglio Thaon di Revel, nume tutelare della Regia Marina, che godeva di stima e riverenza presso gli alti comandanti dell'Arma. Ancora nel 1943 il Duca del Mare era tra i destinatari delle comunicazioni riservate della Regia Marina, addirittura prima del Sottocapo di Stato Maggiore e del Comandante in capo delle Forze Navali. Da sempre era titolare di un proprio ufficio ”ad personam” presso il ministero, ove era molto influente.
La risposta è secca: l’ammiraglio Bergamini “Doveva semplicemente obbedire, perché un soldato non può sottrarsi agli obblighi che gli derivano dall’onore militare”. Ad altri ufficiali che, numerosi, gli chiedevano consiglio, rispose di “Regolarsi secondo ciò che ciascuno, nella propria coscienza di militare, riteneva fosse il miglior interesse della Patria”.
Personalmente preferì rifugiarsi in Vaticano nell’inverno 1944.
Sembra inutile descrivere il clima di gigantesca confusione che regnava negli ambienti militari, terrorizzati dall’immancabile reazione tedesca, paralizzati da mancanza di ordini e dall’incapacità di prendere autonome iniziative.
Chi scrive, all’epoca aveva 13 anni e ne ha lucidissimi ricordi.
Bergamini, come milioni di altri soldati, ha saputo per radio dell’armistizio, si precipita a chiamare Roma, esterna il suo sdegno, minaccia l’autoaffondamento dell’intatta Squadra Navale, è ammorbidito con la notizia delle promesse alleate e invitato a raggiungere La Maddalena.
Da Genova e La Spezia parte la flotta, in posizione centrale le navi da battaglia Roma, Italia (ex Littorio), Vittorio Veneto.
La reazione tedesca è immediata, si applica il Piano Achse: affondamento di navi italiane passate al nemico. Partono in volo i Dornier 217 K2 del III KG 100 (100° Stormo), i quali hanno in dotazione una nuova bomba razzo radioguidata modello PC-1.1.400X con una capacità di perforare 120 mm di acciaio.
Bergamini, chiede vanamente protezione a Superaereo e agli Alleati, ma la sua nave è segnata. Saputo dell’occupazione di La Maddalena da parte tedesca, naviga per Bona, ma non la raggiungerà. Alle 15,42 del 9 settembre la Regia Nave da Battaglia Roma incassa da un aereo isolato una prima bomba, 10 minuti dopo una seconda che la trascinerà negli abissi insieme a 1.253 uomini.
Martino e Nani parlano: “di una sfortunata coincidenza, dovuta anche all’impiego delle nuove bombe radiocomandate PC 1400X”.
Con il trattato di pace la Marina ebbe il colpo finale. Molte “belle navi” furono cedute alle nazioni vincitrici, le corazzate Italia e Vittorio Veneto, che marcivano nei Laghi Amari del Canale di Suez, inutilizzate per tutto il restante periodo della guerra, furono demolite.
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Della guerra si perde ogni memoria, passano 70 anni e la tesi sostenuta, guerra durante, dalla Marina italiana, è riconfermata dal direttore della Rivista Marittima Patrizio Rapalino nell’articolo Considerazioni politico strategiche sul comportamento della flotta l’8 settembre 1943, pubblicato nel 2013:
“La conservazione delle corazzate era necessaria per mantenere l’Italia nel club delle grandi potenze anche dopo aver perso la guerra. L’8 settembre l’Italia, considerato l’autoaffondamento della flotta francese a Tolone il 27 novembre 1942, continuava a possedere la quarta marina del mondo con ben tre corazzate moderne. Si voleva arrivare alla pace con la flotta intatta superiore a quella francese per continuare a contare nel novero delle grandi nazioni, in quanto dal 1861 in poi la grande nemica e rivale dell’Italia è sempre stata la Francia”.
Il lettore di storia che scrive, a fronte della tragedia immane che ha cambiato il Paese, confessa che in queste considerazioni qualcosa gli sfugge.
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Articolo di Emilio Bonaiti pubblicato grazie all'autorizzazione dell'autore